Invia per email
Stampa

REGGIO CALABRIA – Continuava a gestire direttamente l'azienda che lo Stato gli aveva confiscato da anni. Alla guida della Euroedil c'era ufficialmente la commercialista Francesca Marcello, di fatto però, tutti gli affari erano curati da Giuseppe Stefano Tito Liuzzo, mafioso del quartiere Arangea di Reggio Calabria. La Marcello firmava ogni cosa: acquisti, assunzioni, pratiche, bilanci. Ma firmava quello che Liuzzo e i suoi gli chiedevano di firmare, nulla di più nulla di meno. Una testa di legno, ripagata con lavori gratuiti in casa. Ora, quei favori, gli sono costati l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e peculato.

E' uno spaccato inquietante quello svelato all'alba di oggi con l'operazione “Araba fenice” che ha portato all'arresto di 47 persone (29 in carcere gli altri ai domiciliari). La Dda di Reggio Calabria ha infatti messo a nudo i rapporti, le connivenze, le complicità di una vasta e varia area del mondo delle professioni. Avvocati, commercialisti, bancari e imprenditori collegati in maniera più o meno diretta con gli uomini dei clan reggini. Cosche che “nascondevano” i propri affari soprattutto nel mercato immobiliare. Secondo quanto spiegato dal Procuratore di Reggio, Federico Cafiero de Raho, “non si tratta semplicisticamente di 'ndrangheta”. Ma “della 'ndrangheta più pericolosa”, quella “in giacca e cravatta che sporca il mercato legale, grazie alle complicità che quello stesso mercato arrivano”.

Da una parte quindi le connivenze con professionisti - “consiglieri” e “contabili” - che spiegavano ai boss come e dove nascondere i patrimoni e le attività per evitare i sequestri dei beni da parte della magistratura. Dall'altra la gestione degli affari “interni” che le cosche si spartivano durante veri e propri summit a cui partecipavano le famiglie interessate. L'inchiesta, firmata dal Procuratore aggiunto Michele Prestipino (poi trasferitosi a Roma) e dal pm Giuseppe Lombardo, registra come per ogni palazzo, per ogni complesso di villette o edificio, le imprese edili avessero consolidato un metodo che accontentava tutti. Così c'erano le ditte delle “famiglie” che si occupavano degli sbancamenti di terreno, quelle a cui interessava la carpenteria e quelle a cui venivano affidati la posa degli ascensori oppure degli infissi. C'era lavoro per tutti, per i Lo Giudice, per i Condello, per i Ficara-Latella, per i Ficareddi, per i Rosmini-Serraino, per i Fontana-Saraceno, per i Nicolò Serraino. L'élite dei clan reggini.

Quando poi arrivava un controllo, c'era aria di indagini della magistratura o, semplicemente, qualcosa di strano veniva annusato da boss e picciotti partiva una sorta di controspionaggio. Secondo quanto scoperto dalla Comando della  Guardia di Finanza, guidato da Alessandro Barbera e dagli specialisti della Tributaria e del Gico, diretti da Domenico Napolitano e Giuseppe Abbruzzese, i clan erano in grado di ottenere informazioni riservate. La chiave d'accesso a certe stanze era garantita dall'avvocato Mario Giglio. Era lui che incontrava esponenti delle forze dell'ordine da cui “carpire” le notizie che interessavano ai boss. Padrini che hanno smesso di frequentare i quartieri malfamati o i paesini della provincia reggina, e che siedono sempre più spesso allo stesso tavolo con funzionari di banca o dello Stato. Per questo Cafiero de Raho parla di un'inchiesta che è “tra le più importanti fatte negli ultimi anni a Reggio Calabria”. Perchè “va a colpire il livello superiore della 'ndrangheta, e delinea lo scenario di un’organizzazione criminale che si è sempre più mimetizzata nel mondo dell’economia e delle professioni e si impone a danno dell’economia legale”. Tesi ribadita anche dal Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti colpito “dalla pervasività di un'organizzazione criminale che può contare sulla connivenza di pubblici ufficiali”. Questa insomma, è “la 'ndrangheta che conta”.