domenica 24 giugno 2012

Terremoto, il Dalai Lama visita gli sfollati: “Guardate al futuro con coraggio” (video)

Terremoto, il Dalai Lama visita gli sfollati: “Guardate al futuro con coraggio” (video)

Il leader spirituale tibetano è stato accolto tra gli applausi ai margini della zona rossa di Mirandola e ha donato 100mila dollari alla Croce Rossa per gli aiuti alla popolazione sfollata

“Guardare al futuro con coraggio, senza pensare al passato”. La visita del Dalai Lama a Mirandola, accompagnato dal presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani e dal sindaco Maino Benatti, è stata un’occasione per incoraggiare la popolazione a rialzarsi in piedi, a farsi coraggio e guardare avanti. “Dovete essere determinati – ha detto alla folla radunata, circa 500 persone, la guida spirituale tibetana – solo questo vi aiuterà a costruire una nuova casa e a guardare al futuro”. Quando c’è stato il terremoto, ha raccontato il premio nobel per la pace “ero a Udine. In quel momento sapevo di non poter fare altro che pregare, ma appena ho avuto l’occasione sono venuto qui, per salutarvi”.
La visita lampo, accolta con applausi scroscianti dalla popolazione di una Mirandola ancora in ginocchio, devastata e transennata, è iniziata per il Dalai Lama nella zona rossa, dove ha visto con i propri occhi le macerie, le case distrutte, le fabbriche crollate. Poi, la massima autorità religiosa buddista si è recata al Campo Friuli Venezia Giulia per meditare assieme alla popolazione e rivolgere un incoraggiamento a chi, soprattutto, ha perso i propri cari a causa del sisma.
“Vedendo questa distruzione – ha raccontato rivolgendosi soprattutto a una bimba, che ha perso un parente in seguito ai crolli verificatisi a Mirandola – ho provato profondo dispiacere. In passato ho visitato altri posti dove ci sono stati disastri naturali e ho sempre convinto le persone a pensare al futuro. Quando muore qualcuno che ci è caro, sappiamo che non potrà tornare. Ma dobbiamo pensare a quel che quella persona desidererebbe per noi, al fatto che vorrebbe vederci reagire. È quello che mi è successo quando ho perso i miei tutori, i miei maestri. In quel momento mi sono reso conto che il mio compito era cercare di realizzare quel che loro si aspettavano da me”.
Per ricostruire l’Emilia terremotata il Dalai Lama, che aveva già donato alla Croce Rossa Emilia Romagna 50.000 dollari per aiutare le popolazioni terremotate, oggi ha devoluto – altri 50.000 dollari, “perché quando si visita un luogo dove si è verificato un disastro simile – ha spiegato tra gli applausi – non lo si fa a mani vuote”.
“L’incoraggiamento portato dal Dalai Lama – ha aggiunto il governatore Errani, che assieme al primo cittadino di Mirandola ha ricevuto la tipica kata, la fascia in seta bianca donatagli in segno di saluto da Sua Santità – deve essere per noi un obiettivo. Non dobbiamo guardare indietro ma lavorare sodo per costruire. Ci sono persone che stanno vivendo grandi disagi ma sanno bene cosa significhi lavorare senza mai fermarsi. E dimostreremo al mondo che c’è un’Italia che sa ricostruire, non cederemo nemmeno un attimo. E per quanto possa sembrare paradossale, la riflessione a cui oggi siamo stati invitati è ancora più importante in una situazione di emergenza, perché bisogna prendersi quell’attimo per ricostruire bene”. Senza trascurare, insomma, quella sicurezza “che deve essere prioritaria in questa delicata fase. Noi non vogliamo costruire paesi accanto a centri storici compromessi – ha aggiunto Errani – rivogliamo i nostri centri storici. E ce la faremo”.
Dopo la visita del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la presenza del Dalai Lama è stata “un importante momento di speranza e di dialogo sia per le persone duramente colpite dal terremoto che per i nostri volontari che da un mese curano la gestione dei campi in Emilia Romagna”, ha spiegato il vicepresidente del Friuli Venezia Giulia, Luca Ciriani. Il numero dei terremotati ospitati, spiega la Protezione civile, sta progressivamente diminuendo perché alcune famiglie hanno trovato ricovero da parenti, e i consolati stanno agevolando il rimpatrio degli stranieri.
Allestiti ormai tutti i campi di accoglienza, ora la priorità è allestire tende con dei condizionatori d’aria e con dei teli ombreggianti per permettere alle persone, specie se anziane o ammalate, di sopportare con maggiore agio la calura estiva.
“L’aiuto che ci ha portato il Dalai Lama è materiale e spirituale insieme – ha concluso il sindaco di Mirandola Maino Benatti – è una speranza fondamentale che ci incoraggia a essere solidali, pazienti e tenaci. E con questo atteggiamento ricostruiremo tutto ciò che abbiamo perduto”.

sabato 23 giugno 2012

“Vagliati si rivolse al boss per ottenere una poltrona in Fondazione Fiera”

Il gip di Milano archivia l'accusa di corruzione nei confronti del consigliere comunale del Pdl milanese. Dai rapporti con l'uomo della 'ndrangheta Giulio Lampada emerge uno scambio di "relazioni e influenze grave e sistematico". Scambio che nel codice italiano resta fuori dall'ambito penale

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Grazie all’amicizia con Giulio Giuseppe Lampada, presunto riciclatore della ‘ndrangheta, il consigliere comunale del Pdl milanese Armando Vagliati è entrato in contatto con i piani alti della politica romana e, sempre in virtù di tali rapporti, progettava di ritagliarsi un posto di rilievo nella dirigenza della Fondazione Fiera, l’ente regionale che organizza congressi e meeting. In cambio cosa fa? “Mette in contatto Lampada con imprenditori del settore immobiliare interessati a concludere diversi affari”. E nonostante questo Armando Vagliati non è un corrotto. O meglio: per il reato di corruzione, accusa contestata dalla Direzione distrettuale antimafia (Dda) per i suoi rapporti con presunti appartenenti alla ‘ndrangheta lombarda, “non c’è margine”. E del resto “le consulenze del pm non hanno portato a nulla. Avrebbe stupito il contrario”. Anche perché, spiega il gip Giuseppe Gennari nelle tre pagine con cui dispone l’archiviazione del procedimento, “le relazioni come quelle tra Vagliati e Lampada non producono flagranti corruzioni – ché oggi più nessuno si lascia corrompere compiendo atti illegittimi – ma uno scambio di relazioni ed influenze ben più grave e sistematico”. Ma ancora una volta “si deve prendere atto che questo scambio – in mancanza di una norma ad hoc – rimane al di fuori della rilevanza penale”. Conclusione: “Ogni prosecuzione della indagine sul tema della corruzione, oggi, non ha senso”.
Insomma, ci risiamo: il nodo sta nel vuoto legislativo del nostro codice penale che non punisce il reato di traffico d’influenze. E se, in questo caso, Armando Vagliati esce dall’indagine, per Antonio Oliverio, altro politico pizzicato a intrattenere rapporti con i boss, vale una richiesta di assoluzione da parte del pm (che ne chiese il rinvio a giudizio), accolta dal giudice Roberto Arnaldi che il 4 giugno 2012 ha depositato le motivazioni alla sentenza Infinito: 110 persone condannate, tre assolte, tra queste lo stesso Oliverio.
Al di là di tutto, per Vagliati come per lo stesso Oliverio resta un dato, che il gip Gennari, non manca di sottolineare: lo scambio di relazioni e influenze. Relazioni, ad esempio, tra lo stesso consigliere comunale e Giulio Giuseppe Lampada, oggi imputato per 416 bis, perché accusato di essere, sulla piazza di Milano, il riciclatore della potente cosca Condello. Da sempre Vagliati ha descritto i suoi contatti (certificati da decine di intercettazioni, ndr) con il colletto bianco della ‘ndrangheta come casuali e frutto “di sua buona fede”, o alla peggio, di “dabbenaggine”. E nonostante questo quella conoscenza con quel suo “simpatizzante” gli ha portato diversi vantaggi che lo stesso politico annota in un memoriale depositato agli atti del processo Valle-Lampada e che il giudice nel suo decreto di archiviazione non manca di riprendere.
La conoscenza tra il politico e il presunto boss porta certamente vantaggi al primo. Più difficile individuare i favori ottenuti dall’uomo della ‘ndrangheta. Ma restiamo sul punto del memoriale “dove – annota il giudice – il politico ripercorre i passi attraverso i quali Giulio Lampada lo ha progressivamente introdotto in contesti in cui lo stesso Vagliati riteneva di non potere entrare”. L’elenco? “L’onorevole Alemanno, Franco Morelli (consigliere regionale calabrese arrestato, ndr), gli ambienti romani della politica nazionale”. C’è dell’altro? Prosegue il gip: “Vagliati si rivolge a Lampada anche per ottenere un appoggio nella possibile nomina a Vice Presidente della Fondazione Fiera di Milano”. Ecco allora, in sintesi, il progetto politico che il consigliere comunale immagina grazia all’appoggio dell’uomo delle cosche: “Vagliati, grazie ai contatti di Lampada, spera di fare blocco politico in Lombardia con l’appoggio di Alemanno e di Oliverio. Progetto che, dice lo stesso Vagliati, si arena perché era Oliverio a voler fare il referente di Alemanno al Nord”.
Sul piatto dello scambio (mai provato fino in fondo, da qui l’archiviazione con restituzione degli atti al pm), il politico mette alcuni affari immobiliari. Tra questi l’acquisto un palazzo nel centro di Milano. Siamo nell’estate del 2009. La notizia dell’affare arriva da Vagliati. “E’ una bella operazione – dice il politico – con base d’asta bassa”. L’obiettivo sono 7 milioni di euro finanziati non dal boss ma da un imprenditore del caffè. E’ a lui che Vagliati promette di inviare la delibera con un messo comunale. “Voi altri politici avete anche i commessi”, ironizza Lampada. Il business è decisivo affinché il presunto riciclatore dei Condello attivi il suo pacchetto di voti. “Alla Regione che facciamo?”, chiede Lampada. L’altro: “Il 27 marzo 2010 si vota”. Quindi l’aut aut della ’ndrangheta: “Facciamo prima un’operazione economica oppure niente”. Il consigliere Pdl sa come funziona: “Lo so lo so”, dice e rilancia con un altro affare immobiliare: terreno in zona Parco sud, tra i proprietari c’è anche l’allora capo di gabinetto del sindaco Moratti, l’obiettivo è acquistarlo e fargli cambiare destinazione d’uso. Sul caso pende anche un emendamento al Piano di governo del territorio (Pgt), firmato dallo stesso Vagliati (febbraio 2010), dove si chiede di rendere edificabile il terreno. In quel periodo, dunque, l’obiettivo di Vagliati è quello di racimolare voti da spendere nelle regionali del 2010.
Nonostante tutto questo, la versione di Vagliati è ferma: quel Lampada era solo un esuberante imprenditore calabrese con molte conoscenze. Il politico lo ribadisce nel suo memoriale. Annota il gip: “Dice di non avere mai avuto idea dello spessore criminale di Lampada e che per dabbenaggine, ingenuità, buona fede non capì mai. E mai ebbe sospetti neppure quando Lampada stesso gli rivelò – a seguito di un articolo di giornale – che quantomeno gli affini Valle erano usurai e riciclatori”. L’articolo in questione esce nella primavera del 2009. Vagliati, però, non nutre sospetti. Inizia a dubitare di quell’imprenditore diventato in pochi anni il re dei videopoker, solo nell’estate 2010 e sempre in seguito a un articolo. Solo allora, Vagliati riceve una telefonata dove Lampada giura che si tratta di un errore giudiziario.
Qualcosa, però, sfugge alla memoria e al memoriale del politico Pdl. Una telefonata del gennaio 2010 che il giudice annota quasi integralmente. E’ il 29 gennaio 2010, Armandix (soprannome datogli da Lampada) è al telefono con il consigliere regionale calabrese Franco Morelli. Vagliati si lamenta del fatto che Lampada ha interrotto ogni contatto. Non parla più al telefono (“per paura di intercettazioni”, scrive il giudice). “Si è messo in letargo” spiega Vagliati. E ancora: “Bisogna andare di persona”. Il motivo sono le indagini a carico del “cognato Fortunato Valle e del padre Francesco Valle“. Vagliati è arrabbiato. Sa che l’assenza dell’amico può influenzare l’andamento della campagna elettorale. “Cazzo – dice – veniva qua tutti i giorni (…) rompeva le balle dalla mattina alla sera (… ) il ragazzo (…) se non gli rispondevo (…) eh (…) si incazzava (…) adesso che è il momento clou cazzo mi crolla una delle colonne portanti”.
La telefonata, definita dal gip di “straordinaria gravità”, fissa due punti decisivi. Il primo: almeno fin dal gennaio 2010, Vagliati sa qual è l’ambiente che ruota attorno a Lampada. Che fa? Nulla. Anzi tenta di contattarlo disperatamente. Il secondo: Vagliati, attraverso Lampada, entra in possesso di informazioni riservate su inchieste in corso. Risultato: per la giustizia italiana Armando Vagliati non è un politico corrotto. Un amico di uomini vicini alla ‘ndrangheta, invece, sì. Ma questo non basta.

venerdì 22 giugno 2012

Trattativa, il Pdl ritorna alla carica "Subito la legge sulle intercettazioni"

Solidarietà bipartisan a Napolitano, ma riparte lo scontro con il Pd sugli ascolti. Alfano: "Indegne e indecorose le intercettazioni che sfiorano il Quirinale, una modalità barbara". Casini: schegge della magistratura dietro gli attacchi al Colle di LIANA MILELLA Il retroscena

ROMA - Tutti con Napolitano, ma il Pdl ne approfitta per tentare di incassare la legge sulle intercettazioni, grande incompiuta della legislatura. Subito l'anomala maggioranza che sostiene Monti si divide, come sempre avviene sulla giustizia. Alfano definisce "indecorose e indegne" le telefonate che "sfiorano" il Quirinale, ma attacca Casini e le sue "lacrime di coccodrillo" perché non ha sostenuto a sufficienza il vecchio ddl sugli ascolti, fonte di grande contrasto - bisogna ricordarlo - proprio tra Berlusconi e il Quirinale perché il bavaglio disegnato dall'ex guardasigilli Alfano avrebbe colpito a morte sia la possibilità di fare indagini che il lavoro della stampa. Ma oggi torna l'emergenza sulle conversazioni registrate, Napolitano ipotizza una riforma bipartisan, ma l'intesa appare già impossibile.

Non sarà la prossima settimana quella giusta per aprire il libro della legge sulle intercettazioni. Domani il ministro della Giustizia Paola Severino vola a Washington e ci resterà per cinque giorni. Sulle intercettazioni ha già impartito ordini precisi al suo staff in via Arenula che ruotano su due verifiche decisive per poter andare avanti. La prima: un monitoraggio sui processi più famosi in corso per capire in quale momento sono state diffuse le telefonate registrate e se questo è in regola con l'attuale legge oppure già la viola e che spazi di manovra si aprono per quella futura. L'idea di Severino è che già
adesso le anomalie ci sono.

La seconda verifica riguarda il vecchio ddl Alfano, oggi in stand by in aula a Montecitorio, e quanto di quel testo può effettivamente essere ancora cambiato dopo il doppio voto di Camera (11 giugno 2009) e Senato (10 giugno 2010) tra le proteste del popolo viola e la battaglia dei post-it di Repubblica. Le regole parlano chiaro, nessuna parte che abbia ricevuto una "doppia lettura conforme" può essere modificata. Potrebbe nascere qui la grossa sorpresa: Severino, garantiscono nel suo entourage, proprio per superare intoppi procedurali, starebbe pensando anche a un suo testo ex novo, un ddl Severino, che pigli solo il buono del vecchio testo. Comunque faccia, Antonio Di Pietro già si mette di traverso e boccia un eventuale progetto che imbavagli la stampa dandole la possibilità di pubblicare gli ascolti "a fine inchiesta quando magari la gente condannata è stata pure candidata".

Un fatto è certo, perfino sul metodo per affrontare di nuovo la scottante pratica delle intercettazioni la divisione è profonda. Tant'è che la Pd Donatella Ferranti mette subito una zeppa sull'ipotesi di ripescare i testo Alfano. Chiede che, dall'aula, quell'articolato "torni in commissione" perché così com'è non "all'altezza". La pidiellina Santelli la brutalizza, la chiama ex pm e sostiene che il Pd "vuole solo mantenere il far west attuale".

La partita si complica prima ancora che l'arbitro dia il fischio di avvio. E il peso delle divisioni emerge con nettezza pur nelle ore in cui Pdl e Pd stanno dalla stessa parte nel sostenere Napolitano. Ecco Bersani dire che bisogna "evitare manovre sul Quirinale, oggi presidio della democrazia". Espressioni condivise dal presidente del Senato Schifani per il quale "attaccare Napolitano è attaccare Italia" e dal segretario del Pdl Alfano che subito se la prende con Casini e lo sfida "a promuovere una legge".

Il leader centrista sta col Colle e vede in azione "schegge della magistratura con obiettivi intimidatori", ma sulle intercettazioni replica ad Alfano che le leggi fatte da Berlusconi sulla giustizia "erano finalizzate solo ai suoi processi". In compenso si trova d'accordo con il capogruppo Pdl alla Camera Cicchitto che vede in atto "un'indecente operazione di intossicazione e di depistaggio" e che se la prende con il procuratore aggiunto di Palermo Ingroia, uno dei suoi obiettivi preferiti. Sarà proprio Cicchitto, già in settimana, a chiedere che l'aula affronti subito il nodo delle intercettazioni andando al voto. E qui lo scontro col Pd sarà inevitabile. 

Il gip: "Mancino e Conso sotto controllo potrebbero concordare una versione"

Inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, ecco le carte del gip: pressing dell'ex ministro sulle istituzioni. Il timore espresso dai giudici prima degli interrogatori del novembre scorso di SALVO PALAZZOLO 

PALERMO - Non solo il senatore Nicola Mancino, anche l'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso è stato intercettato nell'ambito dell'inchiesta sulla trattativa mafia-Stato. "È verosimile che possano entrare in contatto fra loro, in vista degli interrogatori fissati", ha scritto il giudice delle indagini preliminari di Palermo Riccardo Ricciardi, il 4 novembre scorso, così autorizzando le intercettazioni della Dia.

E ha avanzato un sospetto ancora più pesante: "È verosimile che gli esponenti politici possano anche entrare in contatto con altri soggetti che rivestivano cariche di rilevante importanza all'interno del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, per riferire elementi utili alle indagini sulla trattativa, di cui non si è ancora a conoscenza, se non addirittura per concordare tra loro versioni di comodo".

Così è iniziata la fase più difficile dell'indagine sulla trattativa (...)

Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini.



  E’ difficile dire con parole di figlio 
  ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
  Tu sei sola al mondo che sa, del mio cuore,
  ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
  Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
  è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
  Sei insostituibile. 
  Per questo è dannata   
  alla solitudine la vita che mi hai data.
  E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
  d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
  Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
  sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
  ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
  alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
  Era l’unico modo per sentire la vita,
  l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
  Sopravviviamo: ed è la confusione
  di una vita rinata fuori dalla ragione.
  Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
  Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Dalai Lama, niente cittadinanza ma il 26 parla a Palazzo Marino

Il premio Nobel ha accettato la soluzione proposta dal Comune di Milano dopo il dietrofront
sulla concessione dell'onorificenza per le pressioni cinesi. L'appuntamento fissato per le 11


La seduta consiliare alla presenza del Dalai Lama si farà, ma le polemiche non si placano. Con le richieste di dimissioni al sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, e soprattutto con gli attacchi di Beppe Grillo, secondo il quale "i neomaoisti meneghini hanno bocciato l'onorificenza in nome dei danè". L'ok della massima guida spirituale tibetana alla 'via d'uscita alternativa' per districare il pasticcio della cittadinanza onoraria, prima annunciata e poi rinviata sine die, è arrivato via mail: il leader tibetano parlerà durante un consiglio comunale straordinario alle 11 del 26 giugno prossimo, subito dopo aver incontrato il sindaco.

Formigoni attacca Pisapia Expo e business, i motivi del no La retromarcia di Palazzo Marino
"Il Dalai Lama è molto felice di visitare Milano e di incontrare il sindaco - ha confermato Pisapia - e accoglie con gioia l'invito in consiglio comunale per un suo discorso che sarà sicuramente di altissimo livello civile e religioso". Il sindaco, incalzato dalle proteste dei suoi stessi sostenitori, ha cercato di differenziare il ruolo avuto nella vicenda dalla giunta e dal consiglio comunale. Per il primo cittadino "la posizione della giunta è stata lineare. Noi lo abbiamo invitato e lui verrà a Palazzo Marino". Il consiglio comunale, invece, "ha la sua autonomia che io difendo e rispetto": omaggiare il Dalai Lama con la cittadinanza onoraria "senza unanimità - ha chiarito il primo cittadino - sarebbe stato un messaggio negativo". Dunque, nessuna retromarcia da parte di Milano sulla lotta per i diritti civili. Anzi, ha rimarcato Pisapia, "sicuramente abbiamo fatto grandi passi avanti: il Dalai Lama farà un discorso che tutti potranno ascoltare e su cui tutti potranno riflettere, per un futuro di rispetto delle minoranze in tutto il mondo".

Le spiegazioni non convincono gli oppositori. "La Cina, oltre ad aver occupato il Tibet, ha occupato anche Palazzo Marino", scrive Beppe Grillo sul suo blog. "Il Comune di Milano, una volta capitale morale, in seguito Milano da bere e oggi senza neppure una qualunque identità, ha rifiutato la cittadinanza onoraria al Dalai Lama. Per ragioni di bottega gli è stata negata con il solito teatrino all'italiana e la nuova maschera lombarda a far la figura di merda: il facondo Pisapippa, una via di mezzo tra Balanzone e Arlecchino, il 'vorrei ma non posso' di piazza della Scala, il dimissionario dall'Expo, ma anche no. La nuova bandiera comunale dovrebbe essere un paio di mutande rosse". Al sindaco di Milano è giunto anche un invito a dimettersi. "L'umiliazione arrecata alla nostra città con il rifiuto di conferire la cittadinanza onoraria al Dalai Lama - secondo Mario Mauro e Carlo Fidanza, europarlamentari milanesi del Pdl - può trovare una pur parziale compensazione soltanto con le dimissioni di Pisapia".

Una bandiera tibetana è stata esposta sui banchi nell'aula di Palazzo Marino dei consiglieri comunali milanesi della Lega Nord, mentre la stoccata finale è arrivata dal presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni. "Bisogna saper far politica, altrimenti si rischiano degli scivoloni", ha detto il governatore ricordando di aver "ricevuto due volte il Dalai Lama al trentesimo piano del grattacielo Pirelli" e di aver istituito "rapporti di collaborazione e di scambio con la Cina".
(22 giugno 2012)

Imane Fadil: "Ci sono in giro le foto di Berlusconi in intimità con Ruby"

La modella, parte civile nel processo a carico di Fede, Mora e della Minetti, riporta ai giudici
una frase del fidanzato di Michelle Conceicao: "L'ex premier aveva la testa sul ventre di Ruby"

Foto compromettenti con Ruby e Silvio Berlusconi in atteggiamenti a luci rosse, "di natura sessuale". A parlare di questi presunti scatti è stata in aula Imane Fadil, la modella marocchina, parte civile al processo milanese nel quale sono imputati Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti e dove è stata anche sentita Chiara Danese, un'altra 'pentita' del bunga bunga, "scioccata" da quell'unica serata in cui è stata ospite a villa San Martino. Imane Fadil non solo è tornata sul capitolo che riguarda Saed Ghanaym, il siriano che nella primavera dello scorso anno le avrebbe chiesto "di andare a Arcore per avere dei soldi", spiegando di aver "supposto fosse dei servizi segreti", ma ha aggiunto nuovi particolari.

LE INCHIESTE Silvio, Ruby e le altre

Un mese fa, ha raccontato, a una cena con una decina di persone, tra cui sua sorella, mentre in tavola avevano servito il dolce, era arrivato un tal Gigi, un amico di un amico, che "aveva detto di essere stato il fidanzato di Michelle Coicecao", la brasiliana ex coinquilina della 'Rubacuori'. L'uomo, ha proseguito la modella, avrebbe riferito che Michelle aveva delle foto di Ruby: "Lui spiegò di averle viste. Disse che erano di natura sessuale - ha continuato la testimone - e una ritraeva Berlusconi con la testa appoggiata sul ventre di Ruby". Foto che,
come ha spiegato Imane riportando quel che aveva saputo da Gigi, la brasiliana conservava probabilmente sul suo cellulare dopo averle trafugate "a Ruby quando un giorno uscì di casa.

Per quelle foto ci fu tra loro anche un litigio", forse quello del 5 giugno di due anni fa quando la minorenne, dopo l'ormai nota notte in questura, venne portata prima alla Mangiagalli per essere medicata e poi trasferita in una comunità. La teste ha inoltre descritto le serate ad Arcore, fornendo dettagli su quel che accadeva (Iris Berardi si sarebbe strusciata con Berlusconi e travestita da Ronaldinho) e ha spiegato di aver respinto presunte avances di Fede, con la conseguenza di non riuscire a firmare il contratto con Mediaset che le sarebbe stato promesso. Più faticoso per la giovane rispondere all'avvocato Gaetano Pecorella, uno dei difensori dell'ex direttore del Tg4, che fra l'altro le ha chiesto come mai avrebbe fatto 60 telefonate, anche di notte, al siriano se non voleva avere nulla a che fare con lui. "Perché non sono una maleducata e una snobista - la risposta - Mi chiamava in continuazione".

Poi è stata la volta di Chiara Danese, anche lei parte civile. La  giovane, che a un certo punto è scoppiata in lacrime, ha ripetuto, come nel processo parallelo a carico dell' ex premier, quel che avrebbe visto il 22 agosto 2010. Quando con Ambra Battilana venne invitata da Fede a villa San Martino: dagli spogliarelli ("Minetti è rimasta nuda") al gioco con la statuina di Priapo ("le ragazze simulavano un rapporto orale e se lo mettevano in mezzo al seno, come se fosse normale"), dai pesanti palpeggiamenti delle ospiti, a suo dire, da parte dell'ex capo del governo e del giornalista, fino ai tentativi di tirarla in mezzo con l'amica in divertimenti a lei poco graditi. Una festa che la lasciò "seriamente scioccata" e alla quale venne accompagnata senza sapere cosa fosse Arcore e nemmeno che il padrone di casa fosse, allora, il presidente del consiglio: "Mi vergogno a dirlo - ha affermato candidamente - ma per me poteva essere un bar qualunque".

Fra gli atti del processo, che riprenderà il prossimo 6 luglio, è stata acquisita la denuncia e la richiesta di archiviazione della Procura di Alba (Cuneo) dell'inchiesta per violenza sessuale nei confronti di un commerciante d'auto 70enne nata in seguito a una denuncia di Ambra. La ragazza aveva sostenuto di aver avuto con l'anziano suo ex rapporti sessuali a pagamento, e in alcuni casi non consenzienti, quando era ancora minorenne, salvo poi non essersi mai presentata dai magistrati, rendendo così impossibile ogni tipo di accertamento.
(22 giugno 2012)

lunedì 18 giugno 2012

Il "badilante" della 'ndrangheta assunto al cantiere di Cannitello

Il "badilante" della 'ndrangheta assunto al cantiere di Cannitello
Villa San Giovanni, sullo stetto di Messina

Specializzato nell'edilizia e con un lungo curriculum da criminale, Domenico Barbaro, è il prescelto dalle cosche per lavorare al cantiere di Cannittello. E' stato condannato in primo grado per associazione mafiosa. Ad assumerlo come badilante è stata la Demoter, la società messinese che lavoro al primo cantiere del Ponte. La ditta ha già lavorato anche con le 'ndrine per l'ammodernamento della statale jonica 106
di GIOVANNI TIZIAN e ANTONELLO MANGANO

VILLA SAN GIOVANNI (RC)  - Professione "badilante". Non proprio un ruolo di vertice per Domenico Barbaro all'interno di Demoter, la società che da quanto risulta a Repubblica.it lo aveva assunto tra i dipendenti del primo cantiere del Ponte, quello di Cannitello. Lungo è il curriculum criminale di Barbaro. Variegate le tipologie di reati per cui è stato indagato e arrestato. E' stato anche condannato per associazione mafiosa, i clan di riferimento sarebbero quelli della Piana di Gioia Tauro, che dal Porto a Roma passando per i cantieri della Salerno-Reggio Calabria dettano legge. L'ultimo provvedimento che l'ha riguardato risale al 2010, e nel cantiere si lavorava già da un anno.

IL BADILANTE - E' in buona compagnia. Tra i dipendenti della società messinese compare anche un altro Domenico Barbaro. Non ha precedenti, ma le sue frequentazioni, come risulta da alcuni atti d'indagine, sono di primo piano. È in contatto con "Mico l'Australiano", l'anziano Domenico Barbaro considerato ai vertici del clan Barbaro-Papalia in Lombardia, ma il suo soprannome è dovuto alla sua esperienza all'estero, nel più giovane dei continenti  appunto. Sempre di Platì sono Francesco Perre e Antonio Barbaro. Due personaggi che il dipendente di Demoter ha incontrato. Il secondo, oltre a far parte di una potente famiglia di 'ndrangheta, è il figlio di Peppe "u nigru". Un leader delle cosche di Platì oltre che titolare di una ditta di calcestruzzo, la Planet Costruzioni. Con questa ditta starebbe lavorando nei cantieri della Bagnara-Bovalino. Appalto vinto dalla Demoter e da una seconda società, la Ricciardello, sempre siciliana. Non solo Cannitello dunque, nei rapporti Demoter-Barbaro.

Francesco Perre ha invece un passato da trafficante di stupefacenti. L'ultimo pezzo da novanta vicino al "badilante" Barbaro è il capo cosca di Oppido Mamertina, paese aspromontano del reggino. Si chiama Francesco Bonarrigo. Nell'indagine 'Crimine'- 300 arresti tra Calabria e Lombardia nel luglio 2010 - è indicato come padrino di Oppido. In grado di tenere le relazioni con gli 'ndranghetisti liguri, piemontesi e lombardi. Insomma, il lavoratore impegnato a Cannitello in quanto a conoscenze non scherza.

Dopotutto, non c'è grande opera che le 'ndrine rifiutano. Non sono ideologiche e neppure vivono di sentimenti ambientalisti. L'importante è gettare calcestruzzo, muovere quintali di terra. Questo vogliono i mammasantissima della provincia di Reggio Calabria. Ma di incontri ravvicinati con la 'ndrangheta, la società messinese ne ha avuti anche nei lavori di ammodernamento della statale 106, tristemente nota come "la strada della morte". Sia per gli incidenti che per i morti ammazzati. Demoter ha fatto parte del consorzio che ha realizzato la "Variante di Gioiosa Jonica". Per gli inquirenti non c'è dubbio. Il Consorzio "era ben preparato a dover pagare un prezzo per lavorare in questa zona; infatti, pur di iniziare e proseguire nelle lavorazioni ha, da alcuni mesi, inviato in loco dei suoi rappresentanti con l'incarico di sondare il terreno', raccogliere 'i suggerimenti giusti' e stringere i contatti con 'chi comanda', al fine di evitare 'malintesi, ritardi e fraintendimenti'".

Demoter vanta una lunga esperienza di lavori in Calabria. Siamo nei cantieri del quinto macrolotto della Salerno-Reggio Calabria. Massimo Aricò era stato assunto nel 2006 prima come autista in un'azienda di Palermo e poi  -  un anno dopo  -  come manovale presso la Demoter. Spiegano i magistrati: "Non può ritenersi casuale il fatto che un soggetto organico alla cosca Gallico - cioè alla consorteria operante nel territorio di Palmi - fosse assunto da due diverse ditte siciliane, fra l'altro con mansioni diverse, per eseguire i lavori nel tratto della A3 di competenza della predetta 'ndrina. Appare fin troppo chiaro che si trattava di assunzioni rientranti in quel sistema volto a garantire la sicurezza nei cantieri".
   
FAVOREGGIAMENTO - Nata nel 1978, Demoter è diventata la maggiore impresa del settore della provincia di Messina. Il titolare ha scalato i vertici dell'Associazione dei costruttori e della Confindustria locale. Poi sono arrivati fatturati milionari, l'espansione nella vicina Calabria e lavori in Serbia, Albania, Tunisia. Infine la chiusura, all'inizio del 2012. Una lunga vicenda giudiziaria  -  l'operazione 'Sistema 2' - che ha costretto la Prefettura a negare il certificato antimafia. A causa di quella che tecnicamente si chiama "interdittiva", le amministrazioni pubbliche revocavano anche i vecchi contratti. L'impresa non poteva sottoscriverne di nuovi e quindi non è rimasto che il concordato preventivo. E quaranta lavoratori in mezzo alla strada. Uno degli ultimi lavori effettuati è stato proprio quello di Cannitello.

L'origine del crollo è in una vecchia storia del 2008. Siamo a Santa Lucia del Mela, provincia di Messina. Nell'ambito dei lavori di metanizzazione, il boss D'Amico costringe l'imprenditore Giacomo Venuto, titolare della ditta 'Mediterranea', a pagare una fattura di 20mila euro oltre Iva. La motivazione formale è il nolo di un escavatore che in realtà non è mai stato effettuato. Si tratta di un'estorsione mascherata, sostengono gli inquirenti. Il documento di pagamento è intestato a Demoter. Venuto prende dieci mila euro in contanti e li consegna al boss. In questo modo, scrivono i magistrati, Demoter "giustifica documentalmente l'estorsione che sta pagando". Carlo Borella, titolare dell'azienda, nega tutto. Anche in maniera grossolana: sono allegate come prova a discolpa fotografie di un escavatore che non è quello noleggiato. Diverso il numero di serie, differenti i bulloni del contrappeso. I magistrati ipotizzano il favoreggiamento. All'inizio, anche con l'aggravante mafiosa, poi decaduta. In primo grado arriva la condanna, ora si attendono i successivi gradi di giudizio.

Le indagini dell'operazione 'Sistema 2' hanno avuto inizio dopo la denuncia di Venuto e riguardano il pizzo nella zona con epicentro Barcellona Pozzo di Gotto. Sono "stanco di pagare", dice l'imprenditore agli inquirenti. Dal 2005 l'impresa era vittima di continue richieste estorsive, furti e ritorsioni. Il danno più grave glielo fecero bruciandogli tre betoniere e altrettanti autocarri. Quando inizia a bitumare il parcheggio del parco Corolla, un grosso centro commerciale nei pressi di Milazzo, gli fanno notare che prima deve "mettersi a posto", cioè accordarsi con la criminalità locale.
   
LE PULCI E I GATTI -  "Cu non voli i pulici non si cucca chi iatti". Chi non vuole le pulci non va a dormire con i gatti. Con questa metafora un mafioso, arrestato nell'ambito dell'operazione Pozzo, spiega a un imprenditore finito in carcere che se l'è andata a cercare. Sono tante le 'commistioni' nel mondo dell'edilizia. La storia della Demoter ci offre uno spaccato  -  seppure parziale - di questo mondo. Il nome dell'azienda emerge anche in altri documenti. Non ci sono rilievi penali, ma dati comunque significativi. Gli inquirenti dell'operazione 'Pozzo' annotano in un verbale dell'11 maggio 2011: "Vi erano poi delle imprese subappaltatrici della Bonatti (la ditta che "metanizzava" il paese di Montalbano Elicona), fra cui la Demoter che pagavano altre somme a titolo di estorsione a favore dell'organizzazione"

Negli atti dell'operazione Gotha  -  anche questa contro la mafia di Barcellona -  si legge che nel 2001 Borella si recò da tale Giovanni Rao per risolvere la questione della galleria Scianina, nel messinese. Rao è indicato come il boss emergente della zona. La Demoter non riusciva a svolgere i lavori a causa di una precedente "vertenza" da 80 milioni per la "messa a posto" di un cantiere di metanodotto. "Tramite i catanesi gli avevo fatto sapere che lì non poteva lavorare", racconta il collaboratore di giustizia Bisognano. "[Ma Rao] disse al Borella che avrebbe dovuto continuare a vedersela con il soggetto con cui sino a quel momento aveva avuto rapporti, e cioè con me". Storie frequenti nei cantieri del Sud e non solo. Ci avevano giurato che quelli del Ponte sarebbero stati diversi. Ora abbiamo le prove che non è stato così.

I pm: "Berlusconi va condannato a tre anni e 8 mesi per i diritti tv"

A Milano la richiesta di condanna per l'ex premier, imputato di frode fiscale per le irregolarità
nella compravendita di diritti da parte di Mediaset. E lui: dalla Procura "una richiesta assurda"
Il pm De Pasquale: "Ci sono le impronte digitali dell'ex premier sul soldi destinati ai fondi neri"



Silvio Berlusconi "ha lasciato le sue impronte digitali" sul sistema "truffaldino" di "maggiorazione dei costi" dei diritti tv acquistati da Mediaset fra il 1994 e il 1998. C'era lui "all'apice della catena di comando del settore" ed era lui ad avere "il controllo su Fininvest, che ha organizzato la frode". E sempre all'ex presidente del consiglio "sono riconducibili i conti bancari dove sono stati versati i fondi neri", che sarebbero stati realizzati con le compravendite gonfiate. E' con queste motivazioni, in sintesi, che il pm milanese Fabio De Pasquale ha chiesto per l'ex premier la condanna a tre anni e otto mesi di reclusione, al termine di una requisitoria durata sette ore in un processo che va avanti ormai da sei anni. Quella della Procura di Milano è "una richiesta assurda". Lo scrive in una nota Berlusconi chiedendosi se durante il suo mandato da premier avesse potuto mai "avere la voglia e il tempo di interferire in una società quotata in Borsa inducendo i suoi dirigenti a eludere il Fisco".

La sentenza potrebbe arrivare in autunno, a chiudere un dibattimento cominciato nel 2006 e passato per numerosi stop anche per attendere i pronunciamenti della Corte costituzionale sui lodi Schifani e Alfano e sulla legge per il legittimo impedimento. Quello sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv da parte di Mediaset, davanti ai giudici della prima sezione penale (presidente del collegio Edoardo D'Avossa), è uno dei tre processi milanesi
in corso a carico dell'ex premier, oltre a quello sul caso Ruby e all'altro con al centro la fuga di notizie sull'intercettazione Fassino-Consorte ai tempi della scalata alla Bnl. Per la vicenda Mills, invece, a febbraio era stata decretata la prescrizione (le parti hanno tempo fino ai primi di luglio per ricorrere in appello), mentre per il caso Mediatrade la Cassazione ha confermato nei giorni scorsi il proscioglimento di Berlusconi.

Un'assoluzione questa, in un procedimento parallelo sempre sui diritti tv, di cui i giudici della prima sezione, secondo gli avvocati Ghedini e Longo, dovranno tenere conto. Mentre il pm, come hanno chiarito i due legali, "come di consueto chiedeva con argomenti insussistenti e privi di ogni fondamento la condanna del presidente Berlusconi", la Corte di cassazione "depositava la motivazione con cui assolveva lo stesso presidente Berlusconi per la medesima vicenda, ancorché per anni diversi, confermando la sua assoluta estraneità e la totale carenza di prove o riscontri a suo carico".

In aula il pm De Pasquale, con a fianco il collega Sergio Spadaro, dopo aver ricostruito "la storia degli acquisti dei diritti Mediaset, che affonda le sue radici nei primi anni Novanta con le società 'di carta' del 'gruppo B' Fininvest", ha chiesto 11 condanne per altrettanti imputati, tra cui diversi ex manager del gruppo del Biscione e alcuni presunti intermediari nelle compravendite, a pene comprese fra i tre e i sei anni. La pena più alta è stata chiesta per Paolo Del Bue, fondatore di Arner Bank e accusato di riciclaggio, mentre per Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, che risponde di frode fiscale come Berlusconi, l'accusa ha chiesto tre anni e quattro mesi.

Per il pm "metà delle sentenza" è già tracciata nelle due consulenze dell'accusa (2005 e 2006) redatte dalla società di revisione Kpmg che avrebbe accertato, a detta del magistrato, "quella catena di vendite artificiose che in quattro anni, fra il '94 e il '98, hanno creato costi fittizi a carico di Mediaset per 368 milioni di dollari". Nello schema delineato dall'accusa, i dirigenti Fininvest/Mediaset, avvalendosi di intermediari e società compiacenti, avrebbero gonfiato i costi d'acquisto dei diritti dei film da trasmettere in tv ("3mila titoli in quattro anni, comprati con 12mila passaggi contrattuali") per creare fondi neri. E così, stando all'imputazione, nei bilanci Mediaset degli anni 2001-2002-2003 sarebbero finiti "circa 40 milioni di euro di costi gonfiati". E i soldi ottenuti dalla presunta frode? Secondo il pm, "circa 250 milioni di dollari sono rimasti nel comparto riservato (il cosiddetto 'gruppo B') di Fininvest". E queste "società nascostè" - alcune delle quali, "quelle maltesi" in particolare, avrebbero avuto un ruolo nelle "vendite fittizie e spezzettate" - erano, ha affermato De Pasquale, "proprio di Berlusconi come persona fisica".

Allo stesso ex premier poi, che "era anche, da tempo immemorabile, in stretti rapporti col produttore americano Frank Agrama" (per il quale sono stati chiesti tre anni e otto mesi di condanna), sarebbero riconducibili anche "i conti bancari" da cui sarebbe transitata "la cresta": quei presunti fondi neri passati per "conti svizzeri e delle Bahamas o in quelli del fiduciario Del Bue di Arner Bank" e poi "usciti con prelievi in contanti".

domenica 17 giugno 2012

Terremoto Abruzzo, i soldi degli Sms imboscati dalle banche

I circa cinque milioni di euro donati dagli italiani per "dare una mano" alla ricostruzione dei luoghi colpiti dal sisma del 2009, sono fermi nei forzieri degli istituti di credito. La Etimos, accusata nei giorni scorsi su alcuni blog di aver gestito direttamente il patrimonio, ci ha sì guadagnato e spiega come li ha spesi

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Gira e rigira sono finiti alle banche i 5 milioni di euro arrivati via sms dopo il terremoto dell’Aquila sotto forma di donazione. E la loro gestione è stata quella prevista da qualsiasi rapporto bancario: non è bastata la condizione di “terremotato” per ricevere un prestito con cui rimettere in piedi casa o riprendere un’attività commerciale distrutta dal sisma. Per ottenerlo occorreva – occorre ancora oggi – soddisfare anche criteri di “solvibilità”, come ogni prestito. Criteri che, se giudicati abbastanza solidi, hanno consentito l’accesso al credito, da restituire con annessi interessi. I presunti insolvibili sono rimasti solo terremotati. Anche se quei soldi erano stati donati a loro. Il metodo Bertolaso comprendeva anche questo. È accaduto in Abruzzo, appunto, all’indomani del sisma del 2009. Mentre Silvio Berlusconi prometteva casette e “new town”, l’ex numero uno della Protezione civile aveva già deciso che i soldi arrivati attraverso i messaggini dal cellulare non sarebbero stati destinati a chi aveva subito danni, ma a un consorzio finanziario di Padova, l’Etimos, che avrebbe poi usato i fondi per garantire le banche qualora i terremotati avessero chiesto piccoli prestiti. E così è stato. Le donazioni sono confluite in un fondo di garanzia bloccato per 9 anni. Un fondo che dalla Protezione civile, due mesi fa, è stato trasferito alla ragioneria dello Stato. La quale, a sua volta, lo girerà alla Regione Abruzzo. E di quei 5 milioni i terremotati non hanno visto neanche uno spicciolo. Qualcuno ha ottenuto prestiti grazie a quel fondo utilizzato come garanzia, ma ha pagato fior di interessi e continuerà a pagarne. Altri il credito se lo sono visto rifiutare.
L’emergenza
Bertolaso
, allora, aveva pieni poteri. Come capo della Protezione civile, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma soprattutto nella veste di uomo di fiducia del premier Silvio Berlusconi. I primi soldi che Bertolaso si trovò a gestire furono proprio i quasi 5 milioni donati dagli italiani con un semplice messaggio del cellulare. Ma lui, “moderno” nella sua concezione di Protezione civile, decise che i milioni arrivati da tutta la penisola sarebbero stati destinati al post emergenza e alle banche, non all’emergenza. Questo aspetto non venne specificato al momento della raccolta, ma Bertolaso avevailpoteredidecidere a prescindere. Spedì poi un suo emissario alla Etimos di Padova, consorzio finanziario specializzato nel microcredito, che raccoglie al suo interno, attraverso una fondazione, molti soggetti di tutti i colori, da Caritas a Unipol.
I numeriQuello che è successo in questi 3 anni è molto trasparente, al contrario della richiesta di donazione via sms che non precisò a nessuno dove sarebbero finiti i soldi. Nemmeno a un ente, la Regione Abruzzo che, paradossalmente, domani potrebbe usare quei soldi per elicotteri o auto blu. La Etimos, accusata nei giorni scorsi su alcuni blog di aver gestito direttamente il patrimonio, ci ha sì guadagnato, ma non fatica ad ammettere come sono stati usati i soldi: dei 5 milioni di fondi pubblici messi a disposizione del progetto dal dipartimento della Protezione civile, 470 mila euro sono stati destinati alle spese di start-up e di gestione del progetto, per un periodo di almeno 9 anni; 4 milioni e 530 mila euro invece la cifra utilizzata come fondo patrimoniale e progressivamente impiegata a garanzia dell’erogazione dei finanziamenti da parte degli istituti di credito aderenti. Intanto sono state 606 le domande di credito ricevute (206 famiglie, 385 imprese, 15 cooperative). Di queste 246 sono state respinte (85 famiglie, 158 imprese, 3 cooperative) mentre 251 sono i crediti erogati da gennaio 2011 a oggi per un totale di 5.126.500 euro (famiglie 89/551mila euro, imprese 153/4 milioni 233mila e 500 euro, cooperative 9/342mila euro). Infine 99 domande sono in valutazione (68 famiglie, 28 imprese, 3 coop).
Gli aiuti e le bancheAl termine dell’operazione quello che è successo è semplice: i soldi che le persone hanno donato sono serviti a poco o a niente. Non sono stati un aiuto per l’emergenza, ma – per decisione di Bertolaso – la fase cosiddetta della post emergenza. Che vuol dire aiuti sì, ma pagati a caro prezzo. Le persone si sono rivolte alle banche (consigliate da Etimos, ovviamente) e qui hanno contrattato il credito. Ma chi con il terremoto è rimasto senza un introito di quei soldi non ha visto un centesimo. Non è stato in grado neppure di prendere il prestito perché giudicato persona a rischio, non in grado di restituire il danaro.
Che fine han fatto gli sms?I terremotati sono stati praticamente esclusi. Se qualcosa hanno avuto lo hanno restituito con un tasso d’interesse inferiore rispetto agli altri, ma pur sempre pagando gli interessi. Chi ha guadagnato sono le banche, sicuramente, e la Regione Abruzzo che, al termine dei 9 anni stabiliti, si troverà nelle casse 5 milioni di euro in più. Vincolati? Questo non lo sappiamo. Ne disporrà come meglio crede, sono soldi che entreranno nel bilancio.
La posizione di EtimosFino a oggi, scoperto il metodo Bertolaso, il consorzio finanziario Etimos si è preso le accuse. Ma il presidente dell’azienda padovana al Fatto Quotidiano spiega che il loro è stato un lavoro pulito e trasparente. “Se qualcuno ha mancato nell’informazione”, dice il presidente Marco Santori, “è stata la Protezione civile che doveva precisare che i soldi erano destinati al post emergenza e non all’aiuto diretto. Noi abbiamo fatto con serietà e il risultato è quello che ci era stato chiesto”.
Da il Fatto Quotidiano del 16 giugno 2012

Guardia di Finanza, si dimette Rapetto. Multò i re dei videopoker per 98 miliardi

Polemico addio su Twitter del colonnello autore di numerose inchieste sul cyber crime e sulle truffe fiscali delle concessionarie del gioco d'azzardo: "Cancellati 37 anni di sacrifici, momento difficile e indesiderato"

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Era un punto di riferimento, in Italia e non solo, per tutto ciò che riguarda le cyber-truffe e le inchieste telematiche. Ed è stato l’uomo che, con le sue indagini, ha fatto infliggere una mega multa da 98 miliardi a dieci società concessionarie del gioco d’azzardo di Stato, poi ridotta dalla Corte dei conti alla cifra comunque consistente di 2,5 miliardi. Ora il colonnello della Guardia di finanza Umberto Rapetto, 53 anni, ha annunciato le sue dimissioni su Twitter: “Chiedo scusa a tutti quelli che mi hanno dato fiducia, ma qualche minuto fa sono stato costretto a dare le dimissioni dalla GdF” scrive alle 9:44 del mattino del 29 maggio; “Qualche modulo e una dozzina di firme sono bastati per cancellare 37 anni di sacrifici e di soddisfazioni e i tanti sogni al Gat GdF”, rincara la dose mezz’ora dopo.
Rapetto era stato il fondatore del Gat (Gruppo anti-crimine telematico), poi diventato Nucleo speciale frodi telematiche. È il reparto che si occupa di contrastare le truffe via Internet, i criminali e gli attacchi informatici. Giornalista pubblicista e autore di numerose pubblicazioni – era stato nominato Ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica Italiana da Carlo Azeglio Ciampi – il colonnello era noto per numerose inchieste condotte con successo: dall’operazione “Macchianera” che portò alla luce centinaia di frodi nei confronti dell’Inps, alle indagini che avevano portato all’arresto di criminali informatici in grado di penetrare nel sistema di sicurezza del Pentagono.
 A costargli il posto, però, potrebbe essere stata proprio l’inchiesta sulle slot machine non collegate alla rete telematica dello Stato. E’ di ieri la notizia degli arresti domiciliari di Massimo Ponzellini: l’ex presidente di Bpm ha ricevuto la misura cautelare per un finanziamento sospetto proprio alla società di slot machine, Atlantis.
Le dimissioni arrivano dopo che, bocciata la sua promozione a generale, Rapetto viene rimosso dal Gat – dal prossimo luglio – e spedito a frequentare – da studente – un corso al Centro Studi della Difesa, struttura presso la quale insegnava da 15 anni. Un’assurdità, che segue la bufera politica già sollevata quando venne decisa la sua rimozione sulla quale si erano concentrate ben nove interrogazioni parlamentari provenienti da pressoché tutto l’arco politico (e nelle quali veniva sottolineato la sua “professionalità specifica e riconosciuta a livello internazionale come esperto di lotta al crimine informatico”).
Il Comando generale delle Fiamme Gialle fece sapere che le sue indagini avevano “frequentemente attirato l’attenzione dell’opinione pubblica soprattutto da un punto di vista mediatico” e che il suo allontanamento dal Gat non era “certamente una rimozione ma, al contrario, rientra nella normalità delle vicende che interessano tutti gli ufficiali della Guardia di finanza”.
Ieri, però, sono arrivate le dimissioni. Con tanta amarezza. Rapetto, oltre che a Twitter, si è affidato anche a Facebook per esprimere la sua delusione: “Grazie a tutti per la solidarietà: il momento è difficile e indesiderato…”. Evidentemente per lui l’aria era diventata irrespirabile.

giovedì 14 giugno 2012

Trattativa Stato-mafia, indagini chiuse: 12 avvisi da Dell’Utri a Mannino

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Il braccio destro di Berlusconi nuovamente accusato di essere l'"uomo cerniera" tra la politica e Cosa nostra. Oltre ai boss, indagati anche gli ufficiali del Ros Subranni, Mori e De Donno. Il pm Ingroia parla di accordi presi "sul sangue" di servitori della Repubblica

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Dopo l’omicidio Lima diventa interlocutore dei vertici di Cosa nostra come mediatore dei benefici richiesti dalla mafia, agevola la prosecuzione della trattativa dopo l’arresto di Vito Ciancimino e Totò Riina, e alla fine favorisce la ricezione della minaccia mafiosa da parte di Silvio Berlusconi, “dopo il suo insediamento come capo del Governo”: Marcello Dell’Utri è “l’uomo cerniera” tra Stato e mafia, l’anello di congiunzione tra la vecchia e la nuova Repubblica sorta nel ’92 a suon di bombe. Insieme a lui boss e ministri, gregari mafiosi e ufficiali dei carabinieri e, se fossero vivi, anche il capo della polizia Vincenzo Parisi e il vice capo del Dap Francesco Di Maggio: ecco i protagonisti del “ricatto allo Stato”, raccontato da un’indagine durata due anni e che è giunta alla sua conclusione con l’invio ieri pomeriggio delle notifiche dell’avviso di conclusione delle indagini ai 12 indagati dell’inchiesta sulla trattativa tra “mafia e Stato”, condotta, secondo la procura di Palermo, da uomini dello Stato e uomini di Cosa nostra.
Sono Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cinà, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, gli esponenti politici Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri (la cui condanna in appello per concorso esterno in associazione mafiosa è stata recentemente annullata dalla Cassazione). Devono rispondere dell’art. 338 del codice penale: violenza o minaccia a corpi politici dello Stato, aggravata dall’art. 7 per avere avvantaggiato l’associazione mafiosa armata Cosa nostra e “consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni a rappresentanti di detto corpo politico per impedirne o comunque turbarne l’attività”. Insieme a loro presto riceveranno una richiesta di rinvio a giudizio anche l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e il figlio di don Vito, Massimo Ciancimino per concorso esterno alla mafia e per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro.
In un’indagine parallela, sono indagati per false dichiarazioni al pm, l’ex ministro Giovanni Conso, e altri ancora sconosciuti: per loro l’accusa ipotizzata (articolo 371 bis) prevede la sospensione del procedimento fino alla definizione, con sentenza di primo grado o con archiviazione, dell’inchiesta principale. Si chiude oggi una stagione tra le più impegnative per la Procura di Palermo, per la sua capacità di scandagliare la cattiva coscienza della classe politica italiana. I pm chiedono in sostanza di processare i protagonisti di una stagione segnata, secondo l’accusa, dalla svendita dei valori dello Stato da parte di alcuni uomini delle istituzioni in cambio della salvezza della vita di alcuni, identificati, uomini politici.
Il racconto dell’indagine è la narrazione oscura, rimasta sempre in ombra , delle radici della Seconda Repubblica, fondata, come dice il pm Antonio Ingroia, sul sangue dei servitori dello Stato. Ad avviare la trattativa sarebbe stato Calogero Mannino, esponente della sinistra dc, nel mirino delle cosche, accusato di avere contattato “a cominciare dai primi mesi del ’92” investigatori, in particolare dei carabinieri, “per far cessare la strategia stragista”. Scendono in campo, a questo punto, Subranni, Mori e De Donno, che su incarico “di esponenti politici e di governo” aprono un “canale di comunicazione con i capi” di Cosa nostra per far cesare la strategia stragista. Ed in seguito favoriscono lo sviluppo della trattativa rinunciando, insieme e reciprocamente, con i boss, “all’esercizio dei poteri repressivi dello Stato”. Come? Assicurando, per esempio, “il protrarsi della latitanza di Provenzano, principale referente della trattativa”. Che si continua a snodare sul terreno politico: nel frattempo Mannino, infatti, avrebbe esercitato “indebite pressioni per condizionare l’applicazione del 41 bis ai detenuti mafiosi”.
Ma a parlare con i mafiosi, in quel periodo, sono in tanti. Prima di lui, infatti, sulla scena era apparso Marcello Dell’Utri, che dopo l’omicidio di Salvo Lima si pone come interlocutore di Totò Riina “per le questioni connesse all’ottenimento dei benefici”, per poi continuare a dialogare con Provenzano, dopo l’arresto di Vito Ciancimino e Riina. La cattura dei capi dei capi, e l’arrivo dei governi tecnici del ’93 inducono i boss a puntare sul “cavallo” considerato vincente: e per il tramite dello stalliere Vittorio Mangano e di Marcello Dell’Utri, Bagarella e Brusca portano ad Arcore le richieste di Cosa nostra. Tre, in particolare: una legislazione penale e processuale più morbida, un condizionamento dei processi in corso e un trattamento penitenziario più leggero. Condizioni “ineludibili” per porre fine allo stragismo. A capo del governo si è appena insediato Berlusconi: e Dell’Utri deve oggi rispondere di avere favorito la ricezione della minaccia mafiosa da parte di Silvio Berlusconi dopo il suo arrivo a Palazzo Chigi. È il 1994, l’inizio della Seconda Repubblica.
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
Da Il Fatto Quotidiano del 14 giugno 2012

Falliti i Ligresti: crac di Imco e Sinergia Le banche mollano la famiglia siciliana

Il tribunale non ha concesso altre due settimane di tempo per presentare il piano di ristrutturazione dei debiti, nell'ambito dell'articolo 182 bis della legge fallimentare. Le banche non concedono le garanzie ai Ligresti di WALTER GALBIATI MILANO  - Avevano già concesso 41 giorni. Questa volta hanno detto no. Ed è arrivato il fallimento. I giudici hanno negato un rinvio di 15 giorni chiesto per mettere a punto il piano di salvataggio di Imco e Sinergia, le due holding del gruppo Ligresti, cui fa capo il gruppo Fonsai. I debiti delle due società ammontano a oltre 400 milioni di euro. La Procura di Milano si era opposta al salvataggio, spiegando in sostanza che c'era incertezza riguardo agli investitori che avrebbero dovuto, secondo la bozza del piano di salvataggio, portare nuove risorse finanziarie. Nel tempo concesso sono stati raccolti solo 20 milioni. Le banche non hanno dato il loro appoggio.

I giudici Filippo Lamanna, Roberto Fontana e Filippo D'Aquino del Tribunale Fallimentare di Milano hanno accolto la richiesta di fallimento per le due holding dei Ligresti avanzata dal pm milanese Luigi Orsi, titolare anche di un'inchiesta penale sul gruppo Ligresti che vede indagato il fondatore Salvatore Ligresti per aggiotaggio e ostacolo agli organi di vigilanza. "Le società non dispongono della liquidità per far fronte ai propri impegni, stimandosi, tenuto conto anche dei rischi fiscali, un deficit di cassa per la prima tra 29,8 e 32,1 milioni e per la seconda tra 52,2 e 72,6 milioni di euro", scrivono i giudici nella sentenza.

I documenti: Imco 1 - Sinergia 2

Le
banche di fatto hanno voltato le spalle ai Ligresti, nessuna ha firmato l'appoggio al gruppo se non la Cassa di Parma e Piacenza. "All'udienza del 13 giugno - scrivono i giudici - è stata depositata la dichiarazione di una sola banca, la Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza che non rientra tra le otto banche che avevano sottoscritto la lettera in data 30 aprile prodotta in atti e vanta un credito minore in entità". E ancora. "Non solo l'accordo delle banche creditrici, che rappresenterebbero oltre il 90% dell'indebitamento bancario non è stato per nulla raggiunto, ma è ancora sottoposto a una serie di condizioni future e incerte". Le banche che hanno voltato le spalle alla famiglia sono Unicredit esposta per 183,3 milioni, Banco popolare (42,9 mln), Popolare di Milano (35,5 mln), General Electric (30,8 mln), Banca Sai (21 mln), Popolare di Sondrio (6,7 mln) Monte dei Paschi (6,2 mln), Cassa Lombarda (3,9 mln) Hypo (2,5 mln) e altri istituti per 1,2 milioni. Nessun istituto era disposto a un perstito ponte.

Inoltre gli investitori istituzionali che hanno mostrato interesse a partecipare al salvataggio di Imco e Sinergia attraverso il fondo Hines "hannno rappresentato la necessità di disporre di maggior tempo per proseguire le proprie analisi". Anche lo Ieo, l'istituto europeo di oncologia che dovrebbe prendere in gestione parte degli immobili delle due società e garantire quindi dei flussi di cassa non ha dato un parere sulla volontà di prendere le costruzioni in affitto. L'operazione di salvataggio appare quindi "ipotetica", scrivono i giudici. A oggi sono stati raccolti solo 20 milioni, dei 50 richiesti per avviare il piano e dei 100 del buco patrimoniale.

SINERGIA.  "Questi rilievi inducono a formulare un giudizio nettamente negativo riguardo alla richiesta di un ulteriore rinvio, potendosi osservare che se fossero esistite delle condizioni minime di ragionevole certezza la resistente (Sinergia) avrebbe avuto a disposizione, posto che la bozza dell'accordo è stata redatta, lo strumento del ricorso ex art.182 bis comma 6 L.F. con un'assunzione di previsa responsabilità". Per i giudici inoltre la sede del fallimento è Milano, perché qui operano le due società e non a Roma. il patrimonio netto è negativo per 59,7 milioni. Il giudice delegato è Roberto Fontana, mentre i curatori sono Ignazio Arcuri, Silvano Cremonesi e Cesare Franzi.

IMCO. Per i giudici, la richiesta di rinvio "non è supportata da sufficienti elementi di serietà". La richiesta di altre due settimane presentata dai legali, "non spiega come mai gli esperti sinora siano rimasti del tutto inerti, pur dopo un rinvio di sei settimane". Per di più lo stato di insolvenza è ampiamente comprovato da "una situazione di gravissimo squilibrio finanziario, dalla consumazione di atti potenzialmente revocabili, dall'emersione di sempre maggiori oneri finanziari, dal rischio di consolidamento di garanzie ipotecarie e da altri rischi". Nell'ultimo esercizio la perdita di Imco è stata di 227,4 milioni di euro. Il giudice delegato è Filippo D'Aquino, i curatori sono Carlo Bianco, Piero Canevelli e Marco Moro Visconti.

mercoledì 13 giugno 2012

Saviano a Bologna racconta "Il romanzo della crisi"


Lo scrittore partecipa alla "Repubblica delle idee" l'iniziativa che inizia domani fino al 17 giugno, con incontri, spettacoli e solidarietà per le vittime del terremoto. Sarà protagonista della serata di sabato 16 in teatro, insieme all'attore Favino. Dalle 21 metterà in scena le storie dei guasti della finanza e quelle di chi prova a resistere: "Dobbiamo puntare sulle regole e sulle opportunità per i giovani"
Saviano a Bologna racconta "Il romanzo della crisi"
Roberto Saviano

HA RACCONTATO l'Italia criminale delle mafie, quella tragica delle morti sul lavoro, quella oscura degli intrecci, anche al Nord, tra politica e malaffare. Ora Roberto Saviano vuole raccontare la crisi economica. Lo farà da un palco, a Bologna, sabato 16 giugno alle 21 all'Arena del Sole. E sarà uno degli eventi della "Repubblica delle idee", la manifestazione organizzata dal nostro giornale per incontrare la community che ruota intorno al quotidiano ma anche per dare un segno di solidarietà alle vittime del terremoto. L'intervento dello scrittore sarà trasmesso su tutti i maxischermi della città e proposto in diretta televisiva da Sky.

"So che è difficile divulgare l'economia", ammette Saviano. "Si rischia di banalizzare o al contrario di addentrarsi in meccanismi tecnici complessi. Ma proverò a raccontare il "Romanzo della crisi". Sul palco, insieme all'autore di Gomorra, l'attore Pierfrancesco Favino, per una formula narrativa a due voci che Saviano ha già sperimentato in tv. Ma da dove si comincia per capire la crisi economica che stiamo attraversando? "È la stessa domanda che Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo, si è visto rivolgere da un amico olandese" dice Saviano. "Per tutta risposta, Buffett ha consigliato all'amico di leggere un vecchio libro sulla Grande depressione del '29: lì avrebbe trovato ciò che cercava. Quando si è diffuso questo aneddoto, quel volume ormai fuori catalogo è diventato introvabile, con persone disposte a pagare centinaia di dollari per averne una copia. Ecco io comincerei a raccontare la crisi partendo da qui".

Come ogni romanzo che si rispetti, anche quello narrato da Saviano a Bologna ha protagonisti e comprimari. "Per esempio truffatori del calibro di Madoff e Follieri, l'italiano che aveva scalato Manhattan spacciandosi per l'immobiliarista del Vaticano. Tramite le loro vicende voglio dimostrare quanto sia facile la prassi illegale in quegli ambiti della finanza privi di regole".
Ma le truffe, i mutui subprime, i falchi di Wall Street sono solo il punto di partenza. L'approdo del racconto è naturalmente l'Italia. "Il nostro Paese vive una fase di grande difficoltà ma, paradossalmente, può trarre forza dall'abitudine, che altri Paesi non hanno, a vivere in situazioni di sofferenza" spiega lo scrittore. "In questo momento, per esempio, l'Italia ha la migliore struttura di analisi e contrasto per aggredire i capitali mafiosi. La Spagna non è attrezzata come noi, e lo dimostra la bolla speculativa edilizia finanziata dal narcotraffico che sta mettendo in ginocchio Madrid".

Ecco, rileggere la crisi, il suo romanzo, per scoprire gli errori che ci hanno portati a questa emergenza. Ma soprattutto per guardare al futuro. Lo slogan del Festival di Bologna è: idee per il cambiamento. Cosa cambiare? Cosa ci insegna questo "Romanzo della crisi"? "Che le regole servono, per esempio per evitare che personaggi come Madoff e Follieri facciano danni" risponde Saviano. "E che il capitalismo che preferisce l'austerità al credito regolamentato è un capitalismo perdente. Ma io vedo la crisi anche come una opportunità. Scopriamo che non esistono più scorciatoie. Anni fa una laurea in medicina o economia era garanzia di affermazione sociale. Oggi non è più così, e per certi versi potrebbe essere una liberazione: che ognuno segua le sue inclinazioni. Certo, le istituzioni dovrebbero aiutare i giovani a prendere il volo. E invece quelli della mia generazione sentono le istituzioni lontane. Con l'unica eccezione di magistratura e forze dell'ordine, che in molte zone d'Italia restano l'unico presidio dello Stato sul territorio, che dicono ai giovani: non siete soli contro le mafie".

Per Saviano, l'incontro con il pubblico di Bologna sarà una rara eccezione, nella sua vita fatta di scorte e auto blindate. "Conoscere i miei lettori, stringere le loro mani - spiega - sono la vita stessa. Ma a Bologna sarà diverso: sarà un'occasione in cui si ritroveranno tutte quelle persone che da giornalisti o da lettori hanno contribuito a costruire un certo modo di raccontare il mondo, quello di Repubblica".

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