I fantasmi del passato ritornano sempre, come zombi.
Non solo cemento negli affari dei Pesenti che datano alla seconda guerra mondiale. Se, infatti, a far parlare è il sequestro a Colleferro di uno dei più importanti impianti della società, la galassia del gruppo è un coacervo di interessi strategici
Un impero che viene da lontano, costruito da nonno Carlo, classe 1907, che entra nel ’34 all’Italcementi, società che prospera nel periodo fascista grazie allo zio Antonio, senatore del Regno e amico personale di Benito Mussolini. Dopo la Guerra Carlo torna sulla scena nel 1942 come direttore generale del gruppo e si accredita di fronte alla Costituente come anti-fascista smentendo i legami con il regime. Stringe legami con il Vaticano e la potente Curia bergamasca attraverso cui riesce a ottenere nel ’72 un prestito dallo Ior di Paul Marcinkus.
Ma i debiti pesano su Italcementi su cui tenta la scalata il bancarottiere Michele Sindona. In quegli anni, però Carlo è un uomo potente: è vicino alla Dc e ha già la passione per i giornali come La notte, Il tempo e Il giornale di Bergamo. Così Sindona è costretto a rinunciare alla preda. Pesenti, più forte, inizia a muovere i primi passi nella finanza con un salvataggio bancario che gli permette di diventare socio dell’Istituto bancario italiano. Compra poi il Credito Commerciale, la Provinciale Lombarda e la compagnia assicurativa Ras, ma soprattutto entra nel salotto buono della finanza, la Bastogi, alleandosi con Eugenio Cefis, presidente dell’Eni dopo la morte di Enrico Mattei e nelle liste della loggia massonica P2.
E’ in quel periodo che Pesenti decidere di custodire meglio le attività nel cemento e di riorganizzare il proprio impero attorno a Italmobiliare in cui, oltre alla quota di controllo di Italcementi, concentra anche le diverse partecipazioni finanziarie ed editoriali. La ristrutturazione del gruppo però costa cara tanto da rendere indispensabile l’alleanza con Roberto Calvi nella Centrale e nel Banco Ambrosiano di cui Pesenti compra il 3 per cento. Una mossa azzardata quest’ultima che porta il gruppo a doversi disfare di numerose partecipazioni per ripianare i bilanci: ad iniziare da Ibi per arrivare ad Efibanca, alla Provinciale lombarda e, in tempi più recenti, anche alla cessione della Ras.
Nonostante le difficoltà, la famiglia mantiene le relazioni che contano e così riesce ad essere nel salotto buono di Gemina, creata dalla Mediobanca di Enrico Cuccia per custodire pacchetti di partecipazioni strategici, fino ad arrivare direttamente nel capitale di Piazzetta Cuccia, crocevia del disastrato capitalismo italiano dei tempi nostri. Ma che cosa è rimasto oggi dell’impero di nonno Carlo? Di certo il cemento, ma anche un portafoglio di partecipazioni in società quotate che, a causa della crisi, stanno perdendo valore affossando i risultati della società come testimonia la perdita di 51,3 milioni registrata nel primo semestre da Italmobiliare dopo rettifiche di valore di titoli bancari ed editoriali per una quarantina milioni.
Nonostante i tempi difficili, i Pesenti hanno però deciso di restare nel capitale di Mediobanca con cui hanno un rapporto incrociato: da un lato infatti ne possiedono una quota del 2,62%, dall’altro ne subiscono l’influenza dal momento che l’istituto di Pizzetta Cuccia possiede l’8,14% di Italmobiliare. E anche di partecipare, alla fine del 2011, all’aumento di capitale di Unicredit, anch’essa socia di Mediobanca con l’8,7 per cento, mantenendo in portafoglio lo 0,2% della banca guidata da Federico Ghizzoni. Non solo: in Italmobiliare è custodita anche una piccola quota della Mittel, holding di cui è stato presidente a lungo il numero uno del consiglio di sorveglianza di Banca Intesa, Giovanni Bazoli, e la partecipazione del 7,47% di Rcs, del cui patto di sindacato, che regola i rapporti fra i soci più rilevanti del Corriere della Sera, è stato per anni presidente Giampiero, figlio del fondatore Carlo. Come del resto in passato lo era stato per Gemina. Oggi a vigilare sulla partecipazioni sensibili c’è il 49enne Carlo, che siede nel cda di Rcs. Tutte, secondo il bilancio, partecipazioni disponibili per la vendita. Potenziali dismissioni per far cassa, come ai vecchi tempi, e ridurre così il miliardo e duecento milioni di debiti a breve e lungo termine nei confronti delle banche, con il risvolto però di perdere peso nei salotti.
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