martedì 5 febbraio 2013

"La demagogia irresponsabile" di un venditore di fumo

Caporetto, 24 ottobre 1917
La storia si ripete .. ieri come oggi




 
 
di EZIO MAURO
A tre settimane dalle elezioni, i mercati hanno votato ieri, segnalando tutto il loro allarme. Borsa in calo di 4 punti e mezzo (la più debole d'Europa), le banche che arrivano a perdere più di 6 punti, lo spread che risale di 20 punti base, a quota 285. La tregua è finita, il recupero di credibilità del governo Monti rischia di essere mangiato pezzo a pezzo, insieme col rigore e le riforme dell'ultimo anno, dalla confusione politica che porta nuovamente a galla  -  com'è inevitabile  -  tutte le debolezze drammatiche dell'Italia. Un Paese, non dimentichiamolo, che nel 2013 dovrà collocare sul mercato ben 410 miliardi di titoli per finanziarsi il debito: appena 60 in meno del 2012, l'anno peggiore del dopoguerra.

Quel che è successo è sotto gli occhi di tutti. Gli scandali Mps e Saipem trasmettono l'immagine di un sistema inaffidabile, che trucca i conti in un caso e nell'altro inganna la stessa vigilanza: Siena in più manda il segnale d'allarme di una contiguità di interessi e di potere tra la terza banca del Paese e la politica (in questo caso la sinistra), e soprattutto getta un'ombra sul mondo bancario italiano, fino ad oggi più riparato di altri mondi davanti all'urto della crisi.

In questo paesaggio di fragilità e di nuovi dubbi sull'Italia, irrompe il fattore Berlusconi. I report di tutte le banche d'affari occidentali, ieri, lo citano espressamente, per nome e cognome. Gli operatori finanziari, com'è
evidente, non inseguono la piccola politica quotidiana, badano agli scarti di sistema, alle svolte, alle incognite, ai rapporti di forza. Non hanno certo in simpatia la sinistra, in qualunque Paese operi. Non è dunque il recupero di qualche percentuale da parte di Berlusconi che spaventa i mercati. È la combinazione tra il populismo elettorale, di propaganda, della destra italiana, e le possibili conseguenze che questa avventura politica rischia di proiettare sull'azione del prossimo governo, sulla linea della futura maggioranza, sullo spirito del nuovo parlamento. Sul ruolo quindi che l'Italia giocherà in Europa.

È evidente a tutti che la campagna elettorale è il luogo della radicalità, degli slogan, delle promesse, e dunque di un linguaggio forte e persino estremo. Ma in politica, almeno da parte di chi compete per governare, la radicalità elettorale va combinata con la responsabilità dell'amministrazione. Bisogna sostenere le promesse con la credibilità che si è conquistata quando si governava. Bisogna misurarle con la sostenibilità della fase in cui si governerà. Ora è evidente a tutti che l'annuncio di Berlusconi di voler cancellare l'Imu sulla prima casa (3,7 miliardi) e di restituire "in contanti" quella già pagata (altri 3,7 miliardi, per un totale di mezzo punto di Pil) è una promessa impossibile, resa non credibile dalle promesse non mantenute dal passato governo, e resa semplicemente insostenibile dalle condizioni in cui si trovano l'Italia e i suoi conti pubblici.
Ma ciò che allarma l'Europa è l'assoluta irresponsabilità politica e di governo che c'è dietro questo populismo demagogico, nel senso letterale di adulazione del popolo, attraverso i suoi istinti e i suoi interessi a breve. L'uomo che promette di cancellare l'Imu lo ha votato, per scelta libera e autonoma, nel parlamento della repubblica. L'uomo che vuole scardinare le politiche di rigore e di risanamento che Monti ha dovuto varare per rimediare ai disastri del suo governo è lo stesso leader che si è fatto garante con l'Europa del fiscal compact, prendendo impegni precisi a nome dell'Italia con la Ue e con la Bce in un momento drammatico della crisi finanziaria che minacciava di travolgere il nostro Paese. Che credibilità può avere nel suo ultimo voltafaccia?

L'irresponsabilità è massima quando si pensa che Berlusconi sa che non toccherà a lui governare, e quindi non dovrà onorare le promesse, o farsi carico delle bugie elettorali. Quindi può tranquillamente drogare il mercato elettorale alzando la posta senza pagare dazio, introducendo dinamiche politiche impazzite, perché cozzano contro la condotta tenuta fino a ieri dal suo partito in parlamento, contro gli impegni e i vincoli precisi che lui personalmente ha sottoscritto con l'Europa, compreso il pareggio di bilancio imposto a partire da quest'anno dalla Costituzione. Soprattutto, Berlusconi sa che gli avversari non possono seguirlo sul terreno dell'irresponsabilità: Monti infatti ha detto che quello dell'ex premier è un tentativo di "comprarsi i voti" dei cittadini con i soldi dei buchi di bilancio che proprio lui ha lasciato, una sorta di tentativo di corruzione elettorale, prendendo a schiaffi i sacrifici degli italiani. E Bersani ha parlato di "barzellette da Bengodi" per strizzare l'occhio agli evasori, come la proposta del Cavaliere di un nuovo condono tombale.

Ma la demagogia sull'Imu del Cavaliere cade su un terreno già dissodato dal populismo, abbondantemente arato dall'antipolitica: dunque pronto ad accogliere il seme dell'irresponsabilità nei confronti del futuro governo e del patto fiscale europeo che quel governo dovrà onorare. Se i politici sono tutti uguali e il "vaffa" mortuario di Grillo è la cifra politica della fase che stiamo vivendo, allora perché non puntare il voto sulla riffa berlusconiana e scommettere sull'ennesimo vantaggio privato - lo sconto fiscale - a danno dei conti pubblici? Basta col rigore, basta con l'Europa e magari basta anche con l'euro come dice Berlusconi ammiccando prima di ritrattare. L'Italia può farcela da sola, in fondo si stava meglio quando si stava peggio, nessuno diceva la verità e il governo procedeva nell'inganno ottimista, perché sacrifici e rigore hanno un costo elettorale che il leader populista non può permettersi, innocente e invulnerabile com'è nel cerchio perenne del carisma perfetto.

Due disperazioni rischiano di unirsi: quella politica di Berlusconi, che ha perso tutto compreso l'onore e gioca qualsiasi carta titanica pur di vincere in un campionato a parte, che è quello dell'interdizione e del condizionamento, mandando in stallo il sistema; e quella di cittadini che si sentono senza rappresentanza, soli davanti a tasse troppo alte, impoveriti e indifesi. E si capisce perché.

Ciò che non si capisce è perché la sinistra sia sulla difensiva sul tema delle tasse, come se non fosse evidente a tutti che il fisco è arrivato a livelli eccessivi nel nostro Paese, l'evasione cresce e dunque il tema è per forza di cose centrale nella contesa elettorale. Il Pd dovrebbe affrontarlo a testa alta, all'attacco, nella convinzione che i suoi strumenti culturali e politici possono essere i più adatti ad affrontare l'emergenza e la crisi, se sono capaci come dovrebbero di coniugare rigore ed equità, cioè proprio quel che è mancato a Monti. La questione fiscale deve essere discussa davanti al Paese, spiegando come la tassazione faccia parte di uno scambio civico tra lo Stato e il cittadino, che quando va a votare giudica anche la qualità e la quantità dei servizi forniti dall'amministrazione pubblica in cambio del pagamento delle tasse, in un circuito di andata e ritorno e non di solo prelievo. È questo il "capitale simbolico" che lo Stato accumula con il fisco, insieme con il capitale economico centrale, ed è questo che dà legittimità alla tassazione moderna, a differenza dei gabelli medievali imposti dal sovrano ai sudditi come "dono".

Dentro questo quadro, bisogna ricordare ai cittadini che la tassazione è cresciuta per il malgoverno di Berlusconi, la dissipazione di una maggioranza enorme, l'incapacità di realizzare le riforme promesse, il negazionismo davanti alla crisi più pesante degli ultimi decenni. Bisogna dire con chiarezza che la tassazione è troppo alta, senza lasciare questa carta alla demagogia della destra. E bisogna spiegare che si proverà a ridurla puntando sui redditi più bassi e sul lavoro, con responsabilità e coerenza davanti all'Europa. Non perché l'Europa è un vincolo: ma perché è l'unica scelta di sopravvivenza e di garanzia che il Paese può liberamente fare per il suo futuro.
Chi ci guarda, vede il rischio che la demagogia porti voti a Berlusconi proprio mentre mina le politiche di rigore e dunque la credibilità italiana. Un doppio rischio per l'Italia e per l'Europa, secondo i mercati: che il Cavaliere torni competitivo, dopo essersi rivelato incapace di governare, e che la sua predicazione irresponsabile condizioni l'opinione pubblica e dunque il futuro parlamento e il governo, facendo credere agli italiani che la crisi è passata solo perché elettoralmente conviene a Berlusconi.

Davanti a questo pericolo, si capisce che i mercati vedano, capiscano e reagiscano. Si capisce meno che non facciano altrettanto gli italiani.
(05 febbraio 2013)

Prima apertura nella Chiesa: "Diritti alle coppie gay"





L'apertura di monsignor Paglia, ministro della famiglia: "Ma no al matrimonio". "Vigiliamo contro le discriminazioni: venti Paesi dichiarano gli omosessuali fuorilegge"
di ORAZIO LA ROCCA

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Monsignor Paglia

 CITTÀ DEL VATICANO - "No alle nozze gay, ma sì al riconoscimento dei diritti per le coppie di fatto e omosessuali secondo il Codice civile e all'ammissione dei divorziati risposati alla Comunione". Nella Chiesa cattolica spira aria di rivoluzione in materia di famiglia e diritti dei gay. Se ne è fatto portavoce, a sorpresa, l'arcivescovo Vincenzo Paglia, neo presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, alla presentazione degli atti del Meeting internazionale sulla famiglia svolto a Milano lo scorso maggio. Anche se il presule - storico prelato della Comunità di Sant'Egidio - puntualizza che il "vero" matrimonio è solo quello celebrato tra un uomo e una donna, la sua è una apertura inaspettata.


Il "no" della Chiesa alle nozze gay - specifica Paglia - non è un fatto religioso: "La Costituzione italiana parla molto chiaro, ma prima ancora era il diritto romano che stabiliva cosa fosse il matrimonio". E "anche Giorgio Gaber" ricorda "diceva che donna e uomo sono destinati a restare diversi, perché senza due corpi differenti e pensieri differenti non c'è futuro". Ma questo non significa - ammette il presule - che non si debbano riconoscere i diritti delle coppie di fatto, anche gay. Anzi, "è tempo che i legislatori se ne preoccupino".

Paglia riconosce, inoltre, che le "convivenze non famigliari" sono "molteplici", e assicura che la Chiesa è favorevole "a che in questa prospettiva

si aiutino a individuare soluzioni di diritto privato e prospettive patrimoniali all'interno dell'attuale Codice civile". Soluzioni per impedire ingiustizie verso i più deboli. Occorre inoltre vigilare - avverte Paglia - sulle discriminazioni delle persone omosessuali nel mondo: "In oltre venti paesi l'omosessualità è ancora perseguita come un reato". Quanto ai divorziati risposati esclusi dall'eucaristia, il ministro del Vaticano per la famiglia annuncia che "il Papa ci ha chiesto di approfondire ancora la questione, perché vuole trovare una soluzione. Il problema gli sta molto a cuore".

Nelle parole di Paglia non vede aperture Aurelio Mancuso, presidente di Equality Italia, secondo il quale "proporre per le coppie gay il riconoscimento di diritti individuali nel quadro del diritto privato significa mantenere l'attuale situazione di assenza del diritto". Il presidente di Gaynet Franco Grillini dichiara, invece, che "per la prima volta un alto prelato riconosce che esistono anche i diritti delle coppie omosessuali e che nel mondo ci sono molti paesi dove l'omosessualità è reato". Critico Flavio Romani, presidente di Arcigay, per l'ennesimo "no" della Chiesa al matrimonio fra persone dello stesso sesso, "un provvedimento che invece guadagna consensi nell'opinione pubblica e nei governi".
(05 febbraio 2013)

lunedì 4 febbraio 2013

I conti in rosso della Croce Rossa? Dalle auto blu alle spese allegre ecco tutti gli sprechi

In questo articolo
(Fotogramma)
(Fotogramma)
Chi glielo va a dire a uno qualsiasi dei 150mila volontari che la loro Croce Rossa è un carrozzone inefficiente e sprecone? Loro che se va bene prendono come rimborso per una giornata di lavoro un buono pasto. Un esercito di lettighieri, autisti e operatori sui mezzi di soccorso che donano gratis il loro tempo, mentre ogni anno lo Stato italiano sorregge i conti dell'associazione umanitaria e di assistenza con la bellezza di 180 milioni di euro.
Sommateli e dal 2005 a oggi (anni in cui i bilanci neanche venivano prodotti) il conto che il contribuente italiano ha pagato per tenere in piedi la Croce Rossa supera il miliardo di euro. Il bello, o meglio il grottesco, è che il maxi-contributo pubblico serve in realtà solo per pagare gli stipendi.
A chi? Non ai 150mila volontari, ma ai 4mila dipendenti che affollano uffici e sedi centrali e periferiche della Croce Rossa Italiana. Si dirà che è troppo «facile sparare sulla Croce Rossa», ma di facile nel ginepraio dei conti dell'organizzazione c'è ben poco. Francesco Rocca, il commissario straordinario in carica dal 2008 ed eletto presidente poche settimane fa, ci ha messo un sacco di lavoro per provare a rimediare a una situazione difficile. L'ultimo bilancio presentato era del 2004. Poi il nulla. Niente contabilità per un sacco di anni. Rocca è riuscito a comporre i bilanci dal 2005 al 2011 e ora un po' di chiarezza è stata fatta. Ma quell'opera di trasparenza non basta ancora a giustificare quell'abnorme stipendificio pubblico che è stato ed è la Croce Rossa italiana. Quando è arrivato Rocca si è trovato 5mila dipendenti e 23 auto blu, con due autisti a disposizione 24 ore su 24 per macchina. Cosa c'entrino quelle auto blu con lo spirito di un ente umanitario non è dato sapersi. Non c'era un bilancio dal lontano 2004 e c'era da coordinare 19 comitati regionali, 103 comitati provinciali e ben 460 comitati locali. Un coacervo di realtà che spesso non comunicano tra loro. Basti pensare che solo da poco si è riusciti a imporre una tesoreria unica che possa coagulare i flussi finanziari e costruire un conto consolidato che tuttora manca. Senza un consolidamento non c'è leggibilità dei conti. E così ti ritrovi con comitati locali in attivo che convivono con comitati in profonda perdita.
Il salasso per gli stipendi
Ma il tema rilevante è l'ingente somma che ogni anno viene spesa solo in stipendi. Oggi dopo l'opera di razionalizzazione operata da Rocca i dipendenti sono quasi 4mila. Erano 5mila sei anni fa. Ma il costo è sempre elevatissimo. Solo per il personale, documenta la Corte dei Conti, si spendevano 208 milioni nel 2005. Corrispondono a più della metà dell'intera spesa corrente dell'ente che vale poco meno di 400 milioni. Nel 2007 il mega-stipendificio della Croce Rossa elargiva 209 milioni di stipendi e nel 2010 la cifra si è attestata a 208 milioni. Con il 2010 e il 2011 c'è finalmente un calo, ma non tale da cambiare l'ossatura del bilancio della Cri. Per le ambulanze, la benzina e tutto ciò che serve a far funzionare il servizio di assistenza si spendono mediamente 150 milioni di euro, mentre solo per il pagamento dell'esercito degli stipendiati se ne vanno almenno 200 milioni. Per anni la Croce Rossa oltre che assolvere a una funzione assistenziale è stata in realtà un gigantesco welfare sociale sia per il personale civile che per quello militare. Molte delle assunzioni avvenivano per chiamata diretta. Il modus tipico dei sistemi clientelari. E non è finita qui. Perchè premono alle porte degli uffici circa 1.500 precari. Vogliono essere stabilizzati e di fatto è loro consentito sia da una vecchia finanziaria del 2007 sia dai giudici che il più delle volte accolgono le richieste nelle cause. In più pendono numerosi contenziosi sui compensi per la produttività che i precari richiedono alla stessa stregua del personale di ruolo. Cause e contenziosi giuslavoristici che secondo la Corte dei Conti peseranno per 50-70 milioni sui bilanci dei prossimi anni.
Più di un miliardo dallo Stato
Vista così la situazione appare sempre meno sostenibile. Già perchè nonostante il miliardo e oltre immesso dallo Stato nei bilanci dell'ente dal 2005 a oggi, la Croce Rossa finisce per chiudere in disavanzo: l'equilibrio tra entrate e uscite è stato negativo per 14 milioni nel 2011 e per 9 milioni nel 2010. Imponente è il buco della Cri della Regione Lazio dove il disavanzo è stato di 26 milioni nel 2011 dopo il buco di 16 milioni l'anno prima. Vero è che la Cri conta su un avanzo cumulato di amministrazione che a inizio del 2011 era di 69 milioni e che per il 2012 il preventivo finanziario è stimato in pareggio.
Ma sui bilanci così spendaccioni della Croce Rossa pesano residui attivi e passivi giganteschi, cioè entrate e uscite scritte a bilancio ma non incassate o pagate, tali da rendere aleatorie le scritture contabili. Si pensi che i soli residui attivi, cioè le entrate non incassate negli anni valevano 621 milioni a fine 2011. Una volta e mezza l'intero bilancio sul lato delle entrate. Una bomba inesplosa su cui la Corte dei Conti ha lanciato più di un allarme. Il neo-presidente Rocca ha pulito 7mila voci di bilancio e ha cancellato entrate addirittura del 1981. Incassi fantasma di oltre trent'anni fa e tenuti per anni nei conti come se fossero davvero riscuotibili. Uno dei tanti aspetti grotteschi del mega-stipendificio pubblico sotto le insegne della croce rossa in campo bianco.

"Roma tornerà una minaccia per l'Europa". Nei governi e nella finanza scatta l'allarme

Il report di Jp Morgan: un incubo il successo di Berlusconi. In caso di vittoria del Pdl i mercati metterebbero sotto forte pressione l'Italia
di ETTORE LIVINI

Notate lo B spavaldo con gli occhi della falsità e dell'ipocrisia e di paura

 Monti: ''Berlusconi tenta di comprare il voto degli italiani''

MILANO - "I guai di Piazza Affari e il balzo dello spread? Colpa dello scandalo Mps e delle promesse del Cavaliere". I giornali, a maggior ragione quelli stranieri, non votano. Ma dopo il disastro di Siena e l'uno-due su Imu e Balotelli, il fattore-Berlusconi -  come dimostra l'affondo di ieri del Wall Street Journal  -  è tornato improvvisamente a mandare in fibrillazione i mercati e opinione pubblica e cancellerie internazionali. Le Cassandre della grande finanza, fino a pochi giorni fa, si erano cullate nella bambagia di un esito elettorale dato quasi per scontato. Strologavano sull'entità del successo del Pd e i loro analisti si limitavano a esercitarsi sulle differenze (per titoli, valute e bond) tra una vittoria secca di Bersani o la necessità di una coalizione con Monti. Il vento però è cambiato, i listini  -  come dimostra la Caporetto di ieri  -  l'hanno già fiutato e anche i guru della City e di New York hanno iniziato a rivedere i loro calcoli. A rompere il tabù  -  prima dell'edizione online del Wsj  -  è stata la Jp Morgan, uno dei nomi più blasonati di Wall Street. "La nostra opinione resta la stessa di un mese fa: a vincere le elezioni sarà il centro-sinistra, al limite alleandosi con Monti", ha messo le mani avanti in un report stampato ieri mattina. Detto questo, però, ha avanzato per la prima volta la domanda (per ora senza risposta) che tiene con il fiato sospeso i mercati: "Cosa succederebbe se vincesse
Berlusconi?". La risposta della banca Usa è chiara. Punto primo: "Qualsiasi scenario che veda uscire dalle urne un successo del Cavaliere non è positivo per l'Europa". Punto secondo: i possibili sviluppi  -  per la politica e la finanza  -  sono due: "Lo scenario peggiore, quello che i policymakers europei stanno lavorando per evitare, è una vittoria del centrodestra gestita male", scrive Jp Morgan. In quel caso  -  vaticina  -  i mercati "metterebbero sotto forte pressione l'Italia" obbligandola a bussare prima al fondo salva-stati e poi alla Bce, per attivare lo scudo salva-spread.
(L'articolo integrale su Repubblica in edicola e su Repubblica+)