Nel
carcere di Opera il Capo dei capi, intercettato, parla con un boss
della Sacra corona unita e tocca vari argomenti. Minacce contro i pm di
Palermo: "Gli macinerei le ossa". E torna sugli attentati a Rocco
Chinnici e a Giovanni Falcone: "Gli ho fatto fare la fine del tonno”
Questi cornuti… (i pm di Palermo, ndr), se fossi fuori gli macinerei le ossa”.
Totò Riina
si guarda intorno, volta le spalle ai sorveglianti, si piega verso il
suo interlocutore, poi bisbiglia: “Sono stati capaci di portarsi pure
Napolitano”.
Il boss è seduto su una panchina: accanto a lui c’è Alberto Lorusso,
personaggio di spicco della Sacra corona unita, la mafia pugliese, un
uomo rispettoso che sa ascoltare. Lorusso tace, Riina parla:
“Berlusconi? A quello carcere non gliene fanno fare… Ci vuole solo che
gli concedano la grazia”. E poi: “Io sono sempre stato un potentoso… e
se fossi libero, saprei cosa fare, non perderei un minuto”.
L’immagine
catturata dalla micro-telecamera nascosta è nitida e la voce registrata
dalle cimici piazzate nel cortile del carcere di Opera arriva agli
uomini della Dia forte e chiara: dopo vent’anni trascorsi in carcere al
41-bis, nel più assoluto silenzio, il capo dei capi non si trattiene
più. La sua camera di decompressione, il suo sfogatoio, è l’ora d’aria:
ricorda, commenta, si sfoga, chiacchiera a ruota libera di
Berlusconi, cita Napolitano, critica il suo complice
Bernardo Provenzano, giudicandolo poco coraggioso, e per la prima volta rivendica la piena paternità delle stragi di
Capaci e
via D’Amelio,
gonfiandosi d’orgoglio: “Quello venne per i tonni – dice alludendo a
Falcone che nel maggio del ’92 era stato invitato a Favignana ad
assistere alla mattanza – e gli ho fatto fare la fine del tonno”.
“Che bella la mia stagione delle stragi”
Riina “il purosangue” (così lo ha definito il pentito Nino Giuffrè, alludendo alla sua fama di irriducibile all’interno di
Cosa Nostra)
perde l’autocontrollo che sfoggia nelle aule giudiziarie e appare come
un fiume in piena, vomitando tutta la sua rabbia per il processo sulla
trattativa Stato-mafia. Dice: “Mi fa impazzire”. E ancora: “Questi pm mi
fanno impazzire”. Ce l’ha in particolare con
Nino Di Matteo:
“Ma che vuole questo? Perché mi guarda? A questo devo fargli fare la
fine degli altri”. Di Matteo è il suo chiodo fisso. È uno che “fa
parlare i pentiti, gli tira le cose di bocca”, uno “troppo accanito”.
È una svolta epocale. Per la prima volta, i pm di Palermo e gli investigatori della
Dia
ascoltano in presa diretta la storia di un ventennio di stragi
attraverso i ricordi dello stratega mafioso più sfrenato. Quando parla
di
Rocco Chinnici, il magistrato assassinato con
un’autobomba in via Pipitone Federico nel luglio dell’83, Riina è
compiaciuto: “A quello l’ho fatto volare in aria, saltò in aria e poi
tornò per terra, fece un volo”. Quando parla di
Falcone e
Borsellino,
quasi si commuove al pensiero di quanto fosse gloriosa quella stagione
di sangue. “Io sono sempre stato un potentoso, deciso, non ho mai perso
tempo”. Il pugliese Lorusso, a questo punto, lo lusinga: “Che bella
stagione quella, peccato che sia finita”. E Riina: “Se fossi fuori, non
starei a perdere tempo, a questi cornuti gli macinerei le ossa”.
“Dovevamo continuare con le bombe in Sicilia”
I
magistrati della procura palermitana hanno raccolto centinaia di pagine
di trascrizioni, e altre decine di ore di conversazioni non sono state
ancora trascritte. Riina si descrive come il capo assoluto
dell’organizzazione che ha sfidato lo
Stato. Con il
rammarico, persino, di non aver potuto proseguire i piani sanguinari,
stoppati il 15 gennaio ’93 dall’arresto sulla Circonvallazione di
Palermo. E se avesse potuto, avrebbe continuato a colpire in Sicilia:
“Io avrei continuato a fare stragi in Sicilia, piuttosto che queste cose
in
Continente, cose ambigue… dovevamo continuare qui”.
Lo stragismo, insomma, è il suo pallino. E Riina, depositario di tutti i
segreti, parlando con Lorusso, fa capire che ci sono alcuni “misteri
fittissimi”, che riguardano soprattutto la strage di Capaci: “Queste
cose i picciotti di Cosa Nostra non dovranno saperle mai”. Alcuni di
questi misteri Riina dice di averli condivisi solo con un altro uomo
d’onore, il boss poi pentito
Totò Cancemi, il capo-mandamento di Porta Nuova che prese il posto di Pippo Calò, il “cassiere” della mafia, morto nel 2011.
L’assenso dal 41-bis per un attentato a Di Matteo
Sono
intercettazioni che per la prima volta hanno monitorato tutte le
esternazioni del boss in ogni momento della sua vita carceraria: dai
colloqui con i familiari, dove Riina è sempre perfettamente vigile e
auto-controllato, alla cosiddetta socialità, che si svolge in un
ambiente interno del carcere, dove resta prudente, e si rivolge a
Lorusso solo per parlare di calcio e di argomenti “neutri”. Ma quando
arriva l’ora d’aria, il momento di maggiore libertà di un detenuto al
41-bis,
che si svolge all’aperto e regala l’illusione di essere irraggiungibile
da occhi e orecchie indiscreti, si assiste – secondo gli analisti
dell’intelligence antimafia – all’incredibile
metamorfosi
del capo dei capi. Riina esce sul cortile a fianco del pugliese, si
allontana con lui fino a spostarsi nell’angolo più distante dal portico
dove stazionano i sorveglianti, si siede sulla panchina, si guarda
intorno e alle spalle, e poi abbassando la voce comincia a discutere
liberamente, elaborando le sue analisi, commentando le notizie apprese
in tv, o semplicemente abbandonandosi ai ricordi. La sua voce si abbassa
fino al bisbiglio, ma le cimici piazzate con grande perizia dagli
uomini della Dia captano, sullo sfondo del cinguettio degli uccelli,
ogni sussurro del boss. L’idea di
intercettare Riina,
nella primavera scorsa, viene dall’anonimo che con una lettera avverte
la Procura di Palermo che Riina dal carcere, attraverso il figlio, ha
dato l’assenso a un attentato contro il pm Nino Di Matteo:
il Corvo,
secondo gli inquirenti che ne hanno tracciato il profilo psicologico, è
probabilmente un uomo delle istituzioni. A giugno, in coincidenza con
l’avvio del processo sulla trattativa, i pm chiedono di piazzare
microspie e telecamere nel carcere di Opera per scoprire se Riina
reagisce con qualche commento interessante. La risposta è superiore a
ogni aspettativa.
Una chiamata alle armi per i picciotti?
Sono
messaggi o è la voce della rabbia covata in carcere per venti anni?
L’analisi in queste ore ruota attorno a questa domanda: le conversazioni
intercettate – fanno notare gli investigatori – sembrano rivelare per
la prima volta i lati più oscuri della personalità del capo della mafia
stragista. Per questo l’improvvisa
loquacità del
superboss in questo momento per gli 007 antimafia è un’autentica
sciarada. Perché Riina parla tanto? Facile leggere le esternazioni del
super-boss come una
“chiamata alle armi”. La prima, e
la più immediata lettura è quella di un messaggio rivolto alla
manovalanza mafiosa in libertà, perché si attivi e metta in pratica le
minacce a Di Matteo e ai pm della trattativa. Una lettura corretta dal
procuratore
Francesco Messineo secondo cui le
dichiarazioni bellicose di Riina potrebbero fornire copertura a
eventuali entità esterne a Cosa Nostra, fornendo – così ha detto
Messineo – “l’alibi perfetto” per una nuova azione violenta a Palermo.
Ma perché, si domandano gli inquirenti, il boss dovrebbe prestarsi a una
simile messinscena? È possibile – è un’altra tesi diffusa tra chi
indaga – che Riina parli spontaneamente, senza sapere di essere
intercettato. E che le sue dichiarazioni siano assolutamente genuine. Ma
perché il
processo sulla trattativa, che fino a questo momento non ha fatto emergere nulla di particolare nei suoi confronti, lo fa “impazzire”?
Il ruolo del mafioso nella Trattativa Stato-mafia
Una
risposta possibile riguarda gli sviluppi futuri dell’indagine: secondo
chi indaga, Riina forse teme che prima o poi dall’aula bunker possa
venire fuori qualcosa che provi pienamente la sua collaborazione con
parti deviate dello Stato, che avrebbero usato lui e Cosa Nostra per portare avanti la
strategia della tensione;
e che alla fine avrebbero distrutto l’organizzazione mafiosa, uscita
devastata dalla stagione delle stragi. Oggi, insomma, il boss, potrebbe
avere paura: il processo sulla trattativa, fanno notare gli inquirenti, è
per lui come “una spada di Damocle”. Perché se alla fine il processo
proverà che Riina ha trattato, che si è fatto utilizzare, che ha esposto
i suoi soldati alla rovina, la sua fama di “purosangue” sarebbe
definitivamente oscurata. Con una grave perdita di prestigio tra gli
affiliati di Cosa Nostra.
Di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
Da
Il Fatto Quotidiano del 23 novembre 2013