Non
è una fatalità. Va detto, ripetuto tra i denti. È il primo rispetto che
dobbiamo alle già troppe vittime siriane (rispetto della ragione non
solo dell’emozione). Non sono vittime di qualcosa di casuale e
incomprensibile, di qualcosa di inevitabile. Cercare di capire le cause e
le responsabilità – che non sono (quasi) mai divisibili semplicemente
in "buoni e cattivi" – è la prima forma di rispetto che dobbiamo a chi è
vittima di un conflitto armato. Questo va ripetuto mentre il grido
stridulo d’uccello di un’altra guerra sta per lacerare l’aria. Speriamo
che lo stormo maledetto non si alzi in volo. Che la guerra inizi (o
piuttosto si estenda, divampando) non dipende da nessuno di noi che qui
scriviamo e leggiamo. Ci sono Presidenti, Ministri, Organismi
internazionali. Dipende da loro. Speriamo che facciano in modo che
l’Orrenda non stenda ancora una volta la sua ala buia sulla regione
sacra e tremenda del Medio Oriente.
Nel mirino c’è la bellissima e tumultuosa Damasco, dove San Paolo perse per qualche giorno la vista e acquistò per sempre la fede e si rifugiò da Ananìa (c’è ancora quella casa, in cui è cambiata la storia). Terra di luoghi sacri per i cristiani e dove i cristiani soffrono. E di luoghi sacri per altri. La guerra no, non è una fatalità. È comprensibile che il cittadino normale, tornando dalle ferie, si senta abbattuto davanti ai titoli dei tg e dei giornali: ancora guerra. Come se non bastasse la crisi, la fatica quotidiana, la durezza di tutti i giorni. È comprensibile forse che pensi alla guerra come a una maledetta fatalità. Come se non potesse non esserci.
Come se, dunque, si potesse rinunciare a capire. Anche se una guerra non è mai facile da capire. Le cause, specie ai contemporanei, appaiono velate e sfuggenti. Ma questo giornale come non molti altri ha in questi mesi e settimane cercato di indagare e spiegare il dissidio siriano, senza pregiudizi e guardando il più attentamente possibile i fatti. Di certo non appare all’orizzonte nessun "liberatore" e la popolazione inerme soffre di un conflitto di potere che ha radici vecchie e profonde. Le semplificazioni, come le banalizzazioni, sono un’offesa ai vivi e ai morti. Semplificare la guerra o banalizzarla, pensando appunto che sia una specie di fatalità, una necessità legata agli interessi degli uomini è uno sfregio ulteriore ai già sfregiati nel corpo e nell’anima. Cercare di capire, farsi un giudizio è un modo per rispettare, anche da lontano e senza contentarsi di qualche esibizione sentimentale, la vita e la morte di chi in quella guerra ci è precipitato. La posizione del nostro governo è una indicazione: cercare sempre la pace più che la guerra è il compito, che mai dovrebbe essere ispirato da pavidità e da calcolo, degli organismi internazionali, l’Onu come l’Unione Europea, tanto enfatizzati nei discorsi tanto ripetutamente impotenti nei conflitti. Il mondo è un posto maledettamente complicato.
Ma è anche chiaro che quando in un conflitto si superano certe linee – e l’intervento armato esterno è una di queste linee di non ritorno – si imbocca una strada che abbiamo già visto: non si rimedia mai alle stragi con la violenza. Occorre la politica. Rinunciare a cercare di capire significa consegnare il numero già impressionante dei morti a un limbo di coscienza, a un facile sdegno, a una indifferenza della ragione. Damasco per noi cristiani è una patria. Merita la nostra attenzione speciale. Contro la guerra serve la ragione resa più accesa dalla preghiera. Forse non potremo evitare quanto alcuni dei potenti del mondo hanno già deciso, ma potremmo almeno evitare che la nostra coscienza dorma e che la loro non rimorda. La solitudine e l’impotenza che ci attanagliano in frangenti di questo genere è una ferita che ci richiama a quanto sperimentiamo in tanti generi di conflitto. Senza perdono e senza attenzione acuta della comprensione delle cause e degli interessi in gioco (le due cose non sono in opposizione) non si ha convivenza civile. A chi accende conflitti, a chi li accresce, a chi li usa per finalità di potere, fa comodo un popolo addormentato, che guardi lo svolgersi degli eventi come "fatalità".
Noi terremo gli occhi sbarrati, pieni di lacrime per la lunga sofferenza ingiustamente inferta a un popolo, ma anche aperti per comprendere e giudicare. È il primo rispetto che dobbiamo ai fratelli che vivono in quel duro gorgo, in quel fuoco. L’uomo che a Damasco ha trovato l’Amore, e lo ha poi cantato nello stupendo Inno alla carità, suggerisca ai cuori di tutti il punto di vista da cui guardare questo orrore, e se possibile, il punto di vista da cui partire per compiere ogni sforzo per evitare che continui e si allarghi.
Nel mirino c’è la bellissima e tumultuosa Damasco, dove San Paolo perse per qualche giorno la vista e acquistò per sempre la fede e si rifugiò da Ananìa (c’è ancora quella casa, in cui è cambiata la storia). Terra di luoghi sacri per i cristiani e dove i cristiani soffrono. E di luoghi sacri per altri. La guerra no, non è una fatalità. È comprensibile che il cittadino normale, tornando dalle ferie, si senta abbattuto davanti ai titoli dei tg e dei giornali: ancora guerra. Come se non bastasse la crisi, la fatica quotidiana, la durezza di tutti i giorni. È comprensibile forse che pensi alla guerra come a una maledetta fatalità. Come se non potesse non esserci.
Come se, dunque, si potesse rinunciare a capire. Anche se una guerra non è mai facile da capire. Le cause, specie ai contemporanei, appaiono velate e sfuggenti. Ma questo giornale come non molti altri ha in questi mesi e settimane cercato di indagare e spiegare il dissidio siriano, senza pregiudizi e guardando il più attentamente possibile i fatti. Di certo non appare all’orizzonte nessun "liberatore" e la popolazione inerme soffre di un conflitto di potere che ha radici vecchie e profonde. Le semplificazioni, come le banalizzazioni, sono un’offesa ai vivi e ai morti. Semplificare la guerra o banalizzarla, pensando appunto che sia una specie di fatalità, una necessità legata agli interessi degli uomini è uno sfregio ulteriore ai già sfregiati nel corpo e nell’anima. Cercare di capire, farsi un giudizio è un modo per rispettare, anche da lontano e senza contentarsi di qualche esibizione sentimentale, la vita e la morte di chi in quella guerra ci è precipitato. La posizione del nostro governo è una indicazione: cercare sempre la pace più che la guerra è il compito, che mai dovrebbe essere ispirato da pavidità e da calcolo, degli organismi internazionali, l’Onu come l’Unione Europea, tanto enfatizzati nei discorsi tanto ripetutamente impotenti nei conflitti. Il mondo è un posto maledettamente complicato.
Ma è anche chiaro che quando in un conflitto si superano certe linee – e l’intervento armato esterno è una di queste linee di non ritorno – si imbocca una strada che abbiamo già visto: non si rimedia mai alle stragi con la violenza. Occorre la politica. Rinunciare a cercare di capire significa consegnare il numero già impressionante dei morti a un limbo di coscienza, a un facile sdegno, a una indifferenza della ragione. Damasco per noi cristiani è una patria. Merita la nostra attenzione speciale. Contro la guerra serve la ragione resa più accesa dalla preghiera. Forse non potremo evitare quanto alcuni dei potenti del mondo hanno già deciso, ma potremmo almeno evitare che la nostra coscienza dorma e che la loro non rimorda. La solitudine e l’impotenza che ci attanagliano in frangenti di questo genere è una ferita che ci richiama a quanto sperimentiamo in tanti generi di conflitto. Senza perdono e senza attenzione acuta della comprensione delle cause e degli interessi in gioco (le due cose non sono in opposizione) non si ha convivenza civile. A chi accende conflitti, a chi li accresce, a chi li usa per finalità di potere, fa comodo un popolo addormentato, che guardi lo svolgersi degli eventi come "fatalità".
Noi terremo gli occhi sbarrati, pieni di lacrime per la lunga sofferenza ingiustamente inferta a un popolo, ma anche aperti per comprendere e giudicare. È il primo rispetto che dobbiamo ai fratelli che vivono in quel duro gorgo, in quel fuoco. L’uomo che a Damasco ha trovato l’Amore, e lo ha poi cantato nello stupendo Inno alla carità, suggerisca ai cuori di tutti il punto di vista da cui guardare questo orrore, e se possibile, il punto di vista da cui partire per compiere ogni sforzo per evitare che continui e si allarghi.
Davide Rondoni