giovedì 29 agosto 2013

Sulla via di Damasco con gli occhi sbarrati


Non è una fatalità. Va detto, ripetuto tra i denti. È il primo rispetto che dobbiamo alle già troppe vittime siriane (rispetto della ragione non solo dell’emozione). Non sono vittime di qualcosa di casuale e incomprensibile, di qualcosa di inevitabile. Cercare di capire le cause e le responsabilità – che non sono (quasi) mai divisibili semplicemente in "buoni e cattivi" – è la prima forma di rispetto che dobbiamo a chi è vittima di un conflitto armato. Questo va ripetuto mentre il grido stridulo d’uccello di un’altra guerra sta per lacerare l’aria. Speriamo che lo stormo maledetto non si alzi in volo. Che la guerra inizi (o piuttosto si estenda, divampando) non dipende da nessuno di noi che qui scriviamo e leggiamo. Ci sono Presidenti, Ministri, Organismi internazionali. Dipende da loro. Speriamo che facciano in modo che l’Orrenda non stenda ancora una volta la sua ala buia sulla regione sacra e tremenda del Medio Oriente.

Nel mirino c’è la bellissima e tumultuosa Damasco, dove San Paolo perse per qualche giorno la vista e acquistò per sempre la fede e si rifugiò da Ananìa (c’è ancora quella casa, in cui è cambiata la storia). Terra di luoghi sacri per i cristiani e dove i cristiani soffrono. E di luoghi sacri per altri. La guerra no, non è una fatalità. È comprensibile che il cittadino normale, tornando dalle ferie, si senta abbattuto davanti ai titoli dei tg e dei giornali: ancora guerra. Come se non bastasse la crisi, la fatica quotidiana, la durezza di tutti i giorni. È comprensibile forse che pensi alla guerra come a una maledetta fatalità. Come se non potesse non esserci.

Come se, dunque, si potesse rinunciare a capire. Anche se una guerra non è mai facile da capire. Le cause, specie ai contemporanei, appaiono velate e sfuggenti. Ma questo giornale come non molti altri ha in questi mesi e settimane cercato di indagare e spiegare il dissidio siriano, senza pregiudizi e guardando il più attentamente possibile i fatti. Di certo non appare all’orizzonte nessun "liberatore" e la popolazione inerme soffre di un conflitto di potere che ha radici vecchie e profonde. Le semplificazioni, come le banalizzazioni, sono un’offesa ai vivi e ai morti. Semplificare la guerra o banalizzarla, pensando appunto che sia una specie di fatalità, una necessità legata agli interessi degli uomini è uno sfregio ulteriore ai già sfregiati nel corpo e nell’anima. Cercare di capire, farsi un giudizio è un modo per rispettare, anche da lontano e senza contentarsi di qualche esibizione sentimentale, la vita e la morte di chi in quella guerra ci è precipitato. La posizione del nostro governo è una indicazione: cercare sempre la pace più che la guerra è il compito, che mai dovrebbe essere ispirato da pavidità e da calcolo, degli organismi internazionali, l’Onu come l’Unione Europea, tanto enfatizzati nei discorsi tanto ripetutamente impotenti nei conflitti. Il mondo è un posto maledettamente complicato.

Ma è anche chiaro che quando in un conflitto si superano certe linee – e l’intervento armato esterno è una di queste linee di non ritorno – si imbocca una strada che abbiamo già visto: non si rimedia mai alle stragi con la violenza. Occorre la politica. Rinunciare a cercare di capire significa consegnare il numero già impressionante dei morti a un limbo di coscienza, a un facile sdegno, a una indifferenza della ragione. Damasco per noi cristiani è una patria. Merita la nostra attenzione speciale. Contro la guerra serve la ragione resa più accesa dalla preghiera. Forse non potremo evitare quanto alcuni dei potenti del mondo hanno già deciso, ma potremmo almeno evitare che la nostra coscienza dorma e che la loro non rimorda. La solitudine e l’impotenza che ci attanagliano in frangenti di questo genere è una ferita che ci richiama a quanto sperimentiamo in tanti generi di conflitto. Senza perdono e senza attenzione acuta della comprensione delle cause e degli interessi in gioco (le due cose non sono in opposizione) non si ha convivenza civile. A chi accende conflitti, a chi li accresce, a chi li usa per finalità di potere, fa comodo un popolo addormentato, che guardi lo svolgersi degli eventi come "fatalità".

Noi terremo gli occhi sbarrati, pieni di lacrime per la lunga sofferenza ingiustamente inferta a un popolo, ma anche aperti per comprendere e giudicare. È il primo rispetto che dobbiamo ai fratelli che vivono in quel duro gorgo, in quel fuoco. L’uomo che a Damasco ha trovato l’Amore, e lo ha poi cantato nello stupendo Inno alla carità, suggerisca ai cuori di tutti il punto di vista da cui guardare questo orrore, e se possibile, il punto di vista da cui partire per compiere ogni sforzo per evitare che continui e si allarghi.

Davide Rondoni

«Guardate, io vado in Paradiso»

di Davide Perillo
09/10/2012 - Per Francesca le forze venivano tutte da quella certezza, ripetuta al marito poche ore prima di morire. La stessa che l'ha accompagnata durante la malattia: «Io non ho paura». Qui la versione integrale della sua testimonianza
«Io non ho paura». Lo ha detto chiaro, Francesca. Quasi ad alta voce, mentre tirava su la testa. «Raccogliendo le ultime forze», si dice in questi casi con una frase fatta. Invece è vero il contrario. Le forze, per lei, venivano tutte da quella certezza, ripetuta al marito poche ore prima di morire. «Io non ho paura». Le stesse parole affidate a un’amica, il giorno prima: «Ogni giorno è servito, perché in ogni giorno ho affidato alla Madonna tutti i miei cari… Il tempo è prezioso. Non ho paura, sono contenta». La stessa certezza che ha plasmato la vita e la morte, la gioia e il dolore, la salute e la malattia. La certezza di Cristo. La fede.

Aveva 38 anni, Francesca Pedrazzini. Uno in meno di Vincenzo, il marito. Lei insegnante (di diritto), lui avvocato, si sono conosciuti in Università Cattolica («lei mi aiutava a studiare»), fidanzati nel 1995, sposati nel 2000. Tre figli: Cecilia oggi ha 10 anni, Carlo 7, Sofia 3. E una vita piena, allegra, da una che ha un carattere forte e la vita la ama: gli amici e il lavoro, la famiglia e il mare della Grecia...
È proprio tornando da una vacanza, nel gennaio 2010, che tutto prende una piega imprevista. Accelera, di colpo. Un nodulo al seno. Cinque centimetri. E la strada che ti si apre davanti in questi casi: l’operazione, l’ansia per gli esami, la terapia. «Era stata dura, da subito», racconta Vincenzo: «Abbiamo avuto paura. Ma l’aveva affrontata a testa alta. Dopo l’intervento eravamo ripartiti, più ricchi. Io per la prima volta avevo iniziato a vivere non pensando anzitutto a me stesso, non mettendomi più al primo posto». Lei con un punto fermo, un pungolo che cresce anche mentre gli esami si mettono bene. «Carrón, agli Esercizi della Fraternità di Cl, aveva appena parlato della guarigione dei dieci lebbrosi, hai presente?», racconta Sara, la sorella: «Tutti vengono guariti, uno solo torna a cercare Cristo. Ecco, lei ne parlava di continuo: io voglio essere come il decimo, diceva. Voglio conoscere Gesù».
Test e controlli procedono lisci. Nella primavera del 2011 i medici si sbilanciano: «Complimenti, sei guarita. Sarà solo un ricordo». Non era così. A settembre, Francesca torna dalle vacanze (al mare in Grecia e poi a Rimini al Meeting) con il mal di schiena. Altra tornata di esami. Metastasi alle ossa e al fegato. «Il giorno stesso in cui ci hanno comunicato l’esito degli esami siamo andati a trovare padre Claudio alla Cascinazza, il monastero benedettino», racconta Vincenzo: «Le aveva detto: noi preghiamo per la tua guarigione, ma se non ci sarà la guarigione ci sarà un miracolo più grande. Lo avevo ascoltato pensando: si, vabbè, ma io voglio che guarisca. Aveva ragione». È in quei giorni che Francesca spedisce un messaggio alle amiche. Dentro c’è già tutto: «Sono in pace perché Gesù mantiene la promessa di renderci felici. Fai con me questa strada e lo vedremo. Ne sono certa. Ti abbraccio».

Certa. E in pace. «Francesca è passata da tutti gli stati d’animo», racconta Sara: «La ribellione, l’ansia, l’angoscia… Ma il primo istante è stato un sì. Ha detto: va bene così. Non piangeva. Me lo ricordo bene, perché io ero disperata, ma avevo davanti una che non lo era». E perché? «Sono venticinque anni che camminiamo nella storia del movimento. Attraverso il carisma, lei ha sempre vissuto il rapporto con Cristo in maniera decisa e intelligente. Voleva capire. Aveva un’umanità ricca, sempre in lotta. Ed era consegnata a Gesù. Completamente». Non era una santa, non secondo l’immaginetta che tante volte associamo alla parola. Ci tengono a dirtelo. Temperamento forte. Di quelli che si scontrano spesso e a volte, magari, si arroccano. «Ma aveva un’intelligenza chiara sull’istante», racconta Mariachiara, la madre. «Limpida. Senza pregiudizi. L’intelligenza dei puri di cuore». E quando chiedi a Vincenzo se anche prima della malattia lui avesse questa percezione, che il cuore della vita della moglie fosse Cristo, la risposta è netta: «Sì, non avevo dubbi. Ma non era chiaro come adesso».
Di mezzo, ci sono stati mesi di sorprese. «Una delle frasi che Francesca ripeteva più spesso era: sono sopraffatta», dice Sara: «Dalla gratuità, dall’accoglienza. Abbiamo avuto una compagnia costante: amici in ospedale e a casa, mail, messaggi, gente che pregava per lei in ogni angolo del mondo. Quando ha iniziato la chemio io avevo detto a un po’ di gente che avrei fatto un pellegrinaggio da casa nostra al Cimitero Monumentale, da don Giussani. Pensavo fossimo tra parenti. C’era un centinaio di persone. E lei: sono sopraffatta». Ma aveva chiara anche un’altra cosa. «Era certa che quello che le stava capitando era per tutti. Riguardando a questi mesi, mi dico: eravamo noi che avevamo più bisogno di fare questa strada. Lei l’intuizione che Gesù è fedele ce l’aveva già». E serviva anche agli altri. «Io le dicevo: devi stare serena, nessuno di noi sa quanto gli è dato da vivere», racconta Vincenzo: «Lo dicevo con un’angoscia dentro. Magari un istante dopo ero a terra. Ma era come se mi venisse un’energia inaspettata, che mi permetteva di aiutarla. Intanto lei faceva il suo cammino».

Cammino faticoso. Chemio pesanti. Giornate tra letto e divano. «C’è stato un periodo in cui esageravano con gli antidolorifici», racconta Sara: «Lei ha chiesto di ridurli: “Preferisco avere mal di schiena, ma capire mio figlio quando mi parla”…». Un po’ di sollievo arriva a primavera del 2012. La malattia avanza, ma Francesca si sente meglio. «Ed era strafelice», dice Vincenzo: «Ripeteva: il tempo che il Signore mi dà voglio viverlo facendo cose belle con i miei figli». Ecco: e i figli? Come vivevano questa fatica? «Sono sempre stati da guardare, per me», risponde Vincenzo: «Perché hanno avuto una libertà grande. La mamma non stava bene? Ok, era così. Sicuramente facendo fatica, soffrendo. Ma stavano semplicemente di fronte a quello che succedeva». Come Sofia, che quella volta torna dall’asilo e chiede alla nonna: la mamma è a casa? È a letto? «È entrata a vederla: dormi? Poi è andata in cameretta a prendere i suoi giochi, è tornata da lei e le ha detto: mamma, ti faccio la festa a letto. Aveva capito la situazione».
Lo racconta sorridendo, Mariachiara. Si sorride spesso in questa casa. Battute e risate. E un’aria lieta che fa respirare. Anche quando ti dicono del viaggio a Venezia «bellissimo, ma la casa era al quarto piano», o a Lourdes, dove per farla bagnare nella piscina «abbiamo dovuto infiltrarla in un gruppo di spagnoli che avevano il pass». C’è un’altra vacanza che ha segnato Vincenzo e Francesca. A Cervinia, lo scorso luglio, con i responsabili di Cl della Lombardia. E don Carrón. Che si fa raccontare e le dice, con tenerezza: «Vedi, Francesca, siamo tutti malati cronici. Ma tu hai un’occasione in più per la tua maturazione. Non devi perderla».
Esistono due mail spedite da Francesca agli amici, prima e dopo quel dialogo. Basta leggerle. Così come sono, punteggiatura compresa. "Prima": «Appena gli esami vanno male mi assale un’angoscia tremenda, per me ma più che altro per mio marito i miei figli e la mia famiglia ed è una cosa che non riesco a vincere. Il futuro mi terrorizza, mi si spezza il cuore a pensare ai miei figli crescere senza mamma (la Sofia ha solo tre anni!!) e mio marito invecchiare da solo. Sono scenari tragici ma c’è poco da ridere e io ci penso tanto. Tutto sommato la più fortunata sarei io, che ho finito la mia prova. Lo so che la paura non è contraria alla fede, anche Gesù ha avuto paura sulla croce, ma è brutta e io non voglio vivere quello che mi resta (saranno tre mesi, tre anni o trent’anni??? e chi lo sa??) con questa paura nel cuore, determinata dalle circostanze, come se l’abbraccio di Cristo per me e i miei non potesse sconfiggerla. Io voglio avere una fede che davvero c’entra con la vita, come ci diciamo da Gs, e questo non vale forse di più nella prova suprema? Se no, cerchiamo sempre la soddisfazione dove la cercano tutti, come diceva Carron a Repubblica, magari gli altri la cercano nei soldi e nel potere e io la cerco nella salute, che sarà senz’altro un bene più nobile ma non è comunque quello che ti dà la soddisfazione. Sono stata sana fino ad ora, ma l’insoddisfazione so bene che cosa sia…».
E "dopo": «È il tempo della persona, se non ci sei tu preso dall’Avvenimento non c’è niente che tenga, ma se sei preso puoi entrare in ogni circostanza verificando che Dio non trema anche se c’è il terremoto e che tu hai un io nuovo. Mi tremano un po’ i polsi, ma veramente questa occasione non la voglio perdere!!».

Non l’ha persa. L’ha sfruttata fino all’ultimo. Alle ultime settimane, quando i medici le permettono di andare in vacanza a Cefalonia «e lei si sente rinascere: era contenta di andare in vacanza». E agli ultimi giorni. Vincenzo li racconta così. «Quando i medici mi spiegano che manca poco, cado in uno stato di angoscia. Cosa faccio, glielo dico o no? Pensavo: ora scopre che mancano pochi giorni da vivere, e crolla. Come dire: tutto quello che c’è stato prima, non regge. Parlo con i parenti. Con i dottori. Un giorno e mezzo di crisi, totale. Lei a un certo punto mi guarda e fa: “Vince, vieni qui". Mi siedo. E lei: "Guarda, devi stare tranquillo. Io sono contenta. Sono in pace. Sono certa di Gesù. Non ho paura, va bene così. Anzi, sono curiosa di quello che mi sta preparando il Signore”. Ma non sei triste? “No, sono tranquilla. Mi spiace solo per te, perché la tua prova è più pesante della mia, sarebbe stato meglio il contrario”. Lì c’è stata una trasformazione. Io dopo quelle parole ero un altro. Ribaltato. L’angoscia era sparita. Le ho detto sorridendo: sì e vero, sarebbe stato meglio il contrario, soprattutto per i bambini. Poi lei riparte in quarta: “Voglio essere sepolta a Chiaravalle, mi raccomando! E poi ricordati che bisogna iscrivere la Ceci alle medie. Devo assolutamente segnare tutte le cose organizzative che si devono fare …”. Chiede di parlare con la dottoressa. Si fa spiegare tutto. E il giorno dopo domanda di vedere i bambini, uno per uno. “Guardate, io vado in Paradiso. È un posto bellissimo, non vi dovete preoccupare. Avrete nostalgia, lo so. Ma io vi vedro e vi curerò sempre. E mi raccomando, quando vado in Paradiso dovete fare una grande festa”».
Lo stesso con i parenti, uno ad uno. «Io sono entrato in lacrime», racconta Giuseppe, il padre: «E lei: “Piangi pure, perché è il momento di piangere. Però sappi che io sono serena”. Ma continuavano a succedere cose mai viste. Due sere prima che morisse, in ospedale, avevamo ordinato le pizze. Sembrava di essere all’osteria di fuoriporta. Poi il rosario sottovoce. Guardavo ’sta gente e dicevo: ma siamo tutti matti?». E anche Sara ti dice di un’altra grazia nella grazia: «Tanti arrivano alla morte consumati. Lei non ha fatto in tempo. È morta abbronzata, capisci? Era se stessa, completamente. Nelle ultime ore diceva qualche frase sconnessa. Ma se ne accorgeva. “Lo so che sto straparlando. Ma tanto straparlavo anche prima…”».

Serena. E in pace. Tanto da far pensare al marito mentre si trovava di fianco a lei già in coma: «Franci, ma sai che verrei con te? ». Dice Vincenzo: «Per la prima volta nella mia vita ho pensato sinceramente questa cosa. “Verrei con te”. Senza più paura della morte. E ho capito quello che le aveva detto Carrón, con quell’ “hai un’occasione in più”. Francesca aveva solo due strade: la disperazione, o dire sì a Cristo sempre, in ogni istante. Di solito esiste una terza via, la distrazione. Ma in un’occasione così hai una scelta netta da fare. Sicuramente adesso è così anche per noi. Io voglio vivere come ha vissuto lei quest’anno. “Se non accadrà il miracolo, accadrà qualcosa di più grande”: è stato vero».
È stato vero anche per chi le stava intorno. «Io ho 63 anni, ho incontrato il movimento da giovane e ho avuto la grazia di vedere mia figlia andare in Paradiso», dice Mariachiara, semplicemente. «Non ho più paura di nulla. Mia figlia mi ha fatto vedere nella carne che cosa produce una sequela semplice e vera nella vita. Produce il centuplo quaggiù. Francesca negli ultimi tempi era radiosa. Non te la puoi dare da sola, questa cosa. Vede, io ho sempre desiderato per i miei figli che quello che ha determinato la mia vita determinasse anche la loro. Da quando mi sono accorta di essere incinta: Signore, per questo bambino ti chiedo solo una cosa, la fede». Grazia ricevuta. «La sera che è morta dovevamo raccogliere i suoi effetti personali», racconta Matteo, il cognato: «Abbiamo messo via il Rosario e il libretto degli Esercizi Spirituali. Mi è venuto da dire: tutto qui? E poi ti rendi conto che è tutto lì. La domanda e la strada».
Francesca è morta il 23 agosto, un giovedì. Il funerale è stato davvero altro. Roba per cui il collega, alla fine, ti dice «oh, non offenderti, ma a me sembrava di essere a una festa…». O il tassista che accompagna un’amica, arriva, vede l’aria che tira e fa: «Ah, ho capito perché è così elegante, deve andare a un matrimonio». «No, guardi, è un funerale». È sceso dal taxi per chiedere se era vero. Ma anche l’onda che ne è nata è vera. Gli zii, che si sono allontanati dalla fede circa quarant’anni fa, e ora dicono il Rosario e vanno a messa tutti i giorni. Il conoscente che ha una parente in fin di vita, per caso capita nello stesso ospedale, e resta colpito... «Vorrei sapere perché la gente deve convertirsi sul mio cancro», aveva detto Francesca un giorno a un sacerdote amico. E lui: «È il mistero della croce».
E della Risurrezione. «Le amicizie nostre si sono trasfigurate, tutte», dice Vincenzo: «Sono diventate amicizie al destino». La paura non morde più. «Io non ho figli», racconta Sara: «Prima che Franci morisse le ho chiesto: come faccio con i bambini? E lei: ti devi liberare da questo peso. Non sono figli tuoi, non lo saranno mai. Continua a fare la zia. Stai serena e sii certa che Gesù compie la promessa che ci ha messo nel cuore. Lo farà anche con loro». Giorni fa Vincenzo ha fatto una gita al “Parco avventura”, con i bambini. Percorsi imbragati, ponti sospesi. «Alla fine Carlo si gira verso di me e fa: “Ma la mamma ci ha visto?”». Sì, Carlo, ti ha visto. Non avere paura.

lunedì 12 agosto 2013

Ricchezza, Povertà ed Ignoranza: una Società in Declino

Miti e menzogne sono ormai popolari.
Ci sono sviluppi che ben non si adattano a determinate anticipazioni se siamo ben inseriti nei valori occidentali. La realtà e le nostre assunzioni culturali potrebbero scontrarsi. Molti presuppongono questi siano obiettivi dell’umanità, meramente preferenze culturali locali. Si possono sintetizzare come esser frasi di “libertà“, di “ricerca della felicità” e di ”evidenza stessa“.images
È vero, l’ordine che ha prodotto questi concetti è stato sufficientemente efficace per giustificare l’emulazione. Tuttavia, ciò non significa che la strada degli arrampicatori sociali sia predestinata a diventare una linea guida per tutta l’umanità. Posso ancora aggiungere che - le differenze in tutto il mondo tra ricchezzadiritti – riflettono tutto questo. Il rifiuto dei valori che le società avanzate tendono a rendere universali, spiega le differenze a livello mondiale nel loro raggiungimento.
L’atteggiamento espresso attraverso questo rifiuto, rivela il perché la stragrande maggioranza del genere umano rimane non-libero, mal governato e povero.
La disuguaglianza che è un risultato così come la causa di questa condizione, dimostra esser resistente. Dare la colpa ad una ”distribuzione non equa“, è solo una spiegazione superficiale. La frase che ben risuona, è il sintomo di fallimenti passati e futuri, piuttosto che una rivelazione di cause.
Il termine “distribuzione” porta alla mente un rimedio tradizionale della sinistra. Ha guarito piuttosto poco, ma – in compenso – ha saputo sviluppare una tradizione di fallimenti che ha confermato un segno di superiorità morale. Che le masse fuorviate - vittime di un assurdo credo – non riescano a vedere attraverso gli slogan, non invalida il giudizio.
La ridistribuzione non supera la condizione di quelli che han scordato la modernizzazione. In realtà, il mancato raggiungimento delle cose, tende a far fraintendere le reali radici di povertà e ricchezza.
Inoltre, alle masse piace credere che il successo sia un riflesso di fortuna o – per contro – un furto da parte dei potenti. L’equazione di potere e ricchezza spiega perché i movimenti popolari nascano in sostituzione di una orribile dittatura con una dittatura più accettabile che sarà generosa con i suoi sudditi.

Gli Italiani? Un Popolo di Analfabeti ‘Funzionali’


Le colpe maggiori sono da attribuirsi a chi ci ha governato (ma anche ad imprenditori e boiardi di Stato), anche questa è una banalità. Ma allora perchè leggiamo ancora che i sondaggi elettorali danno a questa gente, sempre la stessa da decenni, percentuali di consenso enormi?
adioSinceramente non ho la verità in tasca ma, quasi per caso, ho letto una bella intervista a Tullio De Mauro che risale al 2005, incuriosito ho approfondito l’argomento in rete trovando diversi articoli di blogger indipendenti. Fonti QUI e QUI
Tullio De Mauro, traccia un quadro terrificante sulla capacità di comprensione della lingua parlata e scritta del popolo italiano. Nello studio, datato 2008, De Mauro riporta che il 5% degli italiani tra i 14 e i 65 anni è sostanzialmente analfabeta, cioé non in grado di distinguere lettere e cifre.
La percentuale di italiani che sa leggere bene ha difficoltà di comprensione del testo, parole di De Mauro : “un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un’icona incomprensibile
Il 38% degli italiani sa leggere, cioé riconoscere lettere e numeri, ma ha difficoltà evidenti di lettura.
Solo il 20% della popolazione adulta italiana è in grado di usare la lingua italiana come strumento che fornisca: “gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”.
Un rapporto così drammatico, firmato da un luminare come De Mauro, è stato semplicemente ignorato sia dalle istituzioni che dai mezzi di informazione.
Di che ci sorprendiamo quindi? Come potrà mai fare, la maggioranza degli italiani, a comprendere chi li sta prendendo in giro da decenni? Chi è credibile e chi no?
Badate bene, sto parlando di tutto lo schieramento politico, infatti : Ci sono quelli che votano PD perché ”i miei nonni hanno sempre votato a comunista”, ci sono quelli che votano Legaperché i negri ci rubano il lavoro”, ci sono quelli che votano Casiniperché sono un moderato cattolico”, ci sono quelli che votano Grilloperché gli altri mi hanno rotto i coglioni” e ci sono quelli che votano perché storicamente lo devono fare… un pò come i tifosi di calcio con la loro squadra del cuore.

martedì 6 agosto 2013

Le domande di un non credente al papa gesuita chiamato Francesco



Il pontefice argentino è lo scandalo benefico della Chiesa di Roma. Ma cosa risponderebbe agli interrogativi di un illuminista?
PAPA Francesco è stato eletto al soglio petrino da pochissimi mesi ma continua a dare scandalo ogni giorno. Per come veste, per dove abita, per quello che dice, per quello che decide. Scandalo, ma benefico, tonificante, innovativo.

Con i giornalisti parla poco, anzi non parla affatto, il circo mediatico non fa per lui, non è nei suoi gusti, ma il suo dialogo con la gente è continuo, collettivo e individuale, ascolta, domanda, risponde, arriva nei luoghi più disparati ed ha sempre un testo da leggere tra le mani ma subito lo butta via. Improvvisa senza sforzo alcuno a cielo aperto o in una chiesa, in una capanna di pescatori o sulla spiaggia di Copacabana, nel salone delle udienze o dalla “papamobile” che fende dolcemente la folla dei fedeli.

È buono come Papa Giovanni, affascina la gente come Wojtyla, è cresciuto tra i gesuiti, ha scelto di chiamarsi Francesco perché vuole la Chiesa del poverello di Assisi. Infine: è candido come una colomba ma furbo come una volpe. Tutti ne scrivono, tutti lo guardano ammirati e tutti, presbiteri e laici, uomini e donne, giovani e vecchi, credenti e non credenti aspettano di vedere che cosa farà il giorno dopo.
Di politica non si occupa, non l’ha mai fatto né in Argentina da vescovo né dal Vaticano da papa. Criticò Videla sistematicamente, ma non per l’orribile dittatura da lui instaurata ma perché non provvedeva ad aiutare i poveri, i deboli, i bisognosi. Alla fine il governo, per liberarsi di quella voce fastidiosa, mise a sua disposizione una struttura assistenziale fino a quel momento inerte e lui abbandonò la
sua diocesi ad un vicario e cominciò a battere tutto il paese come un missionario, ma non per convertire bensì per aiutare, educare, infondere speranza e carità.

Due mesi fa ha pubblicato un’enciclica sulla fede, un testo già scritto dal suo predecessore con il quale convive senza alcun imbarazzo a poche centinaia di metri di distanza. Ha ritoccato in pochi punti quel testo e l’ha firmato e reso pubblico.

L’enciclica è alquanto innovativa rispetto ad altre sullo stesso tema emesse dai suoi predecessori. La novità sta nel fatto che non si occupa del rapporto tra fede e ragione. Non esclude affatto che quel rapporto ci sia, ma a lui (e a Benedetto XVI) interessa la grazia che promana dal Signore e scende sui fedeli. La grazia coincide con la fede e la fede con la carità, l’amore per il prossimo, che è il solo modo – attenzione: il solo modo – di amare il Signore. Si sente il profumo intellettuale di Agostino. Più di Agostino che di Paolo. Ma qui andiamo già nel difficile. Si dovrebbe pensare che siano tre i Santi di riferimento per l’attuale Vescovo di Roma (che insiste molto su questa qualifica che accompagna e addirittura precede il titolo pontificale): Agostino, Ignazio, Francesco.

Ma è quest’ultimo che dà al Papa che ne ha preso il nome il connotato più evidente e da lui sottolineato in ogni occasione. Vuole una Chiesa povera che predichi il valore della povertà; una Chiesa militante e missionaria, una Chiesa pastorale, una Chiesa costruita a somiglianza di un Dio misericordioso, che non giudica ma perdona, che cerchi la pecora smarrita, che accolga il figliol prodigo.

Certo, la Chiesa cattolica è anche un’istituzione, ma l’istituzione, come la vede Francesco, è una struttura di servizio, come l’intendenza di un esercito rispetto alle truppe combattenti. L’intendenza segue, non precede. E così siano l’istituzione, la Curia, la Segreteria di Stato, la Banca, il Governatorato del Vaticano, le Congregazioni, i Nunzi e i Tribunali, tutta l’immensa e immensamente complessa architettura che tiene in piedi da duemila anni la Chiesa, Sposa di Cristo.

Questo, finora, è stato il volto della Chiesa. La pastoralità? Certo, un bene prezioso. La Chiesa predicante? La Chiesa missionaria? La Chiesa povera? Certo, la vera sostanza che l’istituzione contiene come un gioiello prezioso dentro una scatola d’acciaio.

Ma attenzione: per duemila anni la Chiesa ha parlato, ha deciso, ha agito come istituzione. Non c’è mai stato un papa che abbia inalberato il vessillo della povertà, non c’è mai stato un papa che non abbia gestito il potere, che non abbia difeso, rafforzato, amato il potere, non c’è mai stato un papa che abbia sentito come proprio il pensiero e il comportamento del poverello di Assisi. E non c’è mai stata, se non nei casi di debolezza e di agitazione, una Chiesa orizzontale invece che verticale. In duemila anni di storia la chiesa cattolica ha indetto 21 Concili ecumenici, per lo più addensati tra il III e il V secolo dell’era cristiana e tra il IX e il XIII. Dal Concilio di Trento passarono più di trecent’anni fino al Vaticano I preceduto dal Sillabo e poi ne passarono ottanta fino al Vaticano II.

I Sinodi sono stati ovviamente molto più numerosi, ma tutti indetti e guidati dalla Curia e dal Papa.

Il cardinale Martini (vedi caso anch’egli gesuita) voleva accanto al magistero del Papa la struttura orizzontale dei Concili e dei Sinodi dei vescovi, delle Conferenze episcopali e della pastoralità. Non fu amato a Roma, come Bergoglio nel conclave che terminò con l’elezione di Ratzinger.

Bergoglio ama anche lui la struttura orizzontale. La sua missione contiene insomma due scandalose novità: la Chiesa povera di Francesco, la Chiesa orizzontale di Martini. E una terza: un Dio che non giudica ma perdona. Non c’è dannazione, non c’è Inferno. Forse Purgatorio? Sicuramente pentimento come condizione per il perdono. «Chi sono io per giudicare i gay o i divorziati che cercano Dio?» così Bergoglio.
* * *
Vorrei però a questo punto porgli qualche domanda. Non credo risponderà, ma qui ed oggi non sono un giornalista, sono un non credente che è da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe, ebreo della stirpe di David. Ho una cultura illuminista e non cerco Dio. Penso che Dio sia un’invenzione consolatoria e affascinate della mente degli uomini.
Ebbene, è in questa veste che mi permetto di porre a Papa Francesco qualche domanda e di aggiungere qualche mia riflessione.
Prima domanda: se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?

Seconda domanda: il credente crede nella verità rivelata, il non credente pensa che non esista alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?

Terza domanda: Papa Francesco ha detto durante il suo viaggio in Brasile che anche la nostra specie perirà come tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Anch’io penso allo stesso modo, ma penso anche che con la scomparsa della nostra specie scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio e che quindi, quando la nostra specie scomparirà, allora scomparirà anche Dio perché nessuno sarà più in grado di pensarlo. Il Papa ha certamente una sua risposta a questo tema e a me piacerebbe molto conoscerla.

Ed ora una riflessione. Credo che il Papa, che predica la Chiesa povera, sia un miracolo che fa bene al mondo. Ma credo anche che non ci sarà un Francesco II. Una Chiesa povera, che bandisca il potere e smantelli gli strumenti di potere, diventerebbe irrilevante. È accaduto con Lutero ed oggi le sette luterane sono migliaia e continuano a moltiplicarsi. Non hanno impedito la laicizzazione anzi ne hanno favorito l’espansione. La Chiesa cattolica, piena di difetti e di peccati, ha resistito ed è anzi forte perché non ha rinunciato al potere. Ai non credenti come me Francesco piace molto, anzi moltissimo, come pure Francesco d’Assisi e Gesù di Nazareth. Ma non credo che Gesù sarebbe diventato Cristo senza un San Paolo.

Lunga vita a Papa Francesco.

6 anni 6 mesi e 6 giornio fà: Veronica Berlusconi, lettera a Repubblica "Mio marito mi deve pubbliche scuse"

LA LETTERA

Veronica Berlusconi, lettera a Repubblica
"Mio marito mi deve pubbliche scuse"

di VERONICA BERLUSCONI


<B>Veronica Berlusconi, lettera a Repubblica<br>"Mio marito mi deve pubbliche scuse"</B> Veronica e Silvio Berlusconi
Egregio Direttore,

con difficoltà vinco la riservatezza che ha contraddistinto il mio modo di essere nel corso dei 27 anni trascorsi accanto ad un uomo pubblico, imprenditore prima e politico illustre poi, qual è mio marito. Ho ritenuto che il mio ruolo dovesse essere circoscritto prevalentemente alla dimensione privata, con lo scopo di portare serenità ed equilibrio nella mia famiglia. Ho affrontato gli inevitabili contrasti e i momenti più dolorosi che un lungo rapporto coniugale comporta con rispetto e discrezione. Ora scrivo per esprimere la mia reazione alle affermazioni svolte da mio marito nel corso della cena di gala che ha seguito la consegna dei Telegatti, dove, rivolgendosi ad alcune delle signore presenti, si è lasciato andare a considerazioni per me inaccettabili: " ... se non fossi già sposato la sposerei subito" "con te andrei ovunque".

Sono affermazioni che interpreto come lesive della mia dignità, affermazioni che per l´età, il ruolo politico e sociale, il contesto familiare (due figli da un primo matrimonio e tre figli dal secondo) della persona da cui provengono, non possono essere ridotte a scherzose esternazioni. A mio marito ed all´uomo pubblico chiedo quindi pubbliche scuse, non avendone ricevute privatamente, e con l´occasione chiedo anche se, come il personaggio di Catherine Dunne, debba considerarmi "La metà di niente". Nel corso del rapporto con mio marito ho scelto di non lasciare spazio al conflitto coniugale, anche quando i suoi comportamenti ne hanno creato i presupposti. Questo per vari motivi: per la serietà e la convinzione con la quale mi sono accostata a un progetto familiare stabile, per la consapevolezza che, in parallelo alla modifica di alcuni equilibri di coppia che il tempo produce, è cresciuta la dimensione pubblica di mio marito, circostanza che ritengo debba incidere sulle scelte individuali, anche con il ridimensionamento, ove necessario, dei desideri personali. Ho sempre considerato le conseguenze che le mie eventuali prese di posizione avrebbero potuto generare a carico di mio marito nella sua dimensione extra familiare e le ricadute che avrebbero potuto esserci sui miei figli.

Questa linea di condotta incontra un unico limite, la mia dignità di donna che deve costituire anche un esempio per i propri figli, diverso in ragione della loro età e del loro sesso. Oggi nei confronti delle mie figlie femmine, ormai adulte, l´esempio di donna capace di tutelare la propria dignità nei rapporti con gli uomini assume un´importanza particolarmente pregnante, almeno tanto quanto l´esempio di madre capace di amore materno che mi dicono rappresento per loro; la difesa della mia dignità di donna ritengo possa aiutare mio figlio maschio a non dimenticare mai di porre tra i suoi valori fondamentali il rispetto per le donne, così che egli possa instaurare con loro rapporti sempre sani ed equilibrati.

RingraziandoLa per avermi consentito attraverso questo spazio di esprimere il mio pensiero, La saluto cordialmente.

(31 gennaio 2007) agosto 1985

La contessa Rangoni Machiavelli: «Così Berlusconi ha truffato mia cognata»


È stata una doppia rapina. Consumata alle spalle di una ragazzina minorenne, choccata dalla morte del padre, fuggita dall'Italia per sfuggire alla curiosità di giornalisti e paparazzi e raggirata da quel professionista che si chiama Cesare Previti al servizio di Silvio Berlusconi». Beatrice Rangoni Machiavelli è una nobile signora di ferme tradizioni liberali, illustre casato, impegnata nel sociale, ex deputato del parlamento europeo. E' anche la cognata di


Anna Maria Casati Stampa di Soncino, la ragazza che nel 1970 resta orfana all'improvviso e tragicamente ed eredita tutto il patrimonio del casato tra cui villa San Martino ad Arcore. La stessa villa in cui dieci anni dopo si trasferisce Il Cavaliere già Re del mattone e in procinto di diventare anche Signor Tv.

Cosa intende per "doppia rapina"?
«Dal 1974 vado denunciando il furto perpetrato ai danni di mia cognata Annamaria Casati Stampa di Soncino, per le modalità dell’acquisto della Villa di Arcore e dei terreni, centinaia di ettari, su cui è stata fatta la speculazione di Milano 2».

Non ci sono sentenze che lo dimostrano.
«Siamo arrivati tardi, quando ci siamo accorti del raggiro erano già passati dieci anni ed era scattata la prescrizione. Ma quelle due acquisizioni restano comunque due rapine».

Chi è Annamaria? E dove vive oggi?
«È una signora di 59 anni, vive all'estero con la sua meravigliosa famiglia e ogni volta che si parla di questa storia per lei sono solo dolori e incubi. La famiglia, i marchesi Casati Stampa di Soncino, sono uno dei più illustri casati milanesi proprietari in Brianza e a Milano di terreni e palazzi».

Cosa succede il 30 agosto 1970?

«Annamaria arriva a Fiumicino da un viaggio con alcuni amici. Chiama il padre, il marchese Camillo che dopo la morte della mamma di Annamaria si era sposato con Anna Fallarino, per farsi venire a prendere. Camillo la rassicura ma le dice restare ancora qualche giorno con gli amici. Il marchese in realtà, depresso e in pessimi rapporti con la signora Fallarino, aveva già pianificato di suicidarsi. Solo che nelle stesse ore in quella casa arrivano la moglie e il suo amante Massimo Minorenti, lo ricattano, gli chiedono un miliardo di lire per ritirare alcune foto compromettenti già consegnate ai giornali. Lui perde la testa, ammazza e si ammazza. Fu Annamaria a dover riconoscere i corpi sfigurati del padre e della matrigna. Del caso parlò tutta Italia, per mesi. Potete immaginare lo choc di quella ragazza».

Come entra in scena Cesare Previti?

«Il padre Umberto è un noto fiscalista calabrese che nei primi anni settanta sta architettando la complessa struttura societaria della Fininvest. Cesare è un giovane avvocato che ha una relazione con la sorella di Anna Fallarino. La prima cosa che fa è cercare di dimostrare che la famiglia Fallarino è l’unica erede del patrimonio Casati Stampa perchè la donna è morta dopo il marito. L’autopsia gli dà torto: la giovane e minorenne Annamaria è l’unica erede. Il padre, Camillo, è morto due minuti e trenta secondi dopo».

Poi però il giovane Previti diventa tutore della ragazza e amministratore del suo patrimonio.

«Eh, già, si vede che questo era il piano B... Annamaria, minorenne, è affidata a un avvocato amico di famiglia Giorgio Bergamasco il quale però diventa senatore e poi ministro in uno dei governi Andreotti. In un modo o nell’altro rispunta fuori Previti che piano piano diventa l’unico responsabile del patrimonio di Annamaria. La quale si ritrova titolare di beni mobili e immobili per circa tre miliardi di lire ma anche un sacco di debiti per via della tasse di successione con rate da 400 milioni».

E Annamaria decide di vendere...
«Non è così. Qui comincia il raggiro. La ragazza non ha soldi, non ha potere di firma e ogni decisione è delegata a Bergamasco-Previti. Fatto sta che un giorno, siamo nel 1973, Previti dice ad Annamaria: “Ma come sei fortunata, c’è un certo Berlusconi che vuole comprare, 500 milioni...”. Annamaria replica che è un po’ poco, e Previti la rassicura: “Mavalà, in fondo gli diamo solo la villa nuda, la cappella e un po’ di giardino intorno...”. Previti lascia intendere che arredi, pinacoteche, biblioteche, il parco, tutto sarebbe rimasto a lei mentre invece stava vendendo tutto».

Nessuno si accorge di nulla?
«Il fatto è che Annamaria, esausta, nel 1973, appena maggiorenne si sposa quasi di nascosto, una notte, e va a vivere in una fazenda in Brasile, con la sua famiglia, felice e lontana dalla sua prima vita di cui vuol sapere poco o nulla. Il curatore ha campo libero. Io me ne accorgo solo nel 1980, dopo che è stata completata la vendita di villa San Martino. Avverto Previti che avrei raccontato tutto a Anna Maria. Lui mi risponde, ancora lo ricordo, che mai sarei riuscita a portare un pezzo di carta ad Annamaria in Brasile con delle prove. Invece ce l’ ho fatta: avevo nascosto il dossier con la documentazione in un biliardino. Ricordo anche che a Fiumicino ci perquisirono con molta accuratezza. Per andare in Brasile, strano no...».

Che succede poi?

«Annamaria ritira deleghe e procure e le affida a me. Lì comincia la mia battaglia. Abbiamo provato negli anni a riprendere almeno qualche quadro, un Annigoni, ad esempio. Mio fratello andò di persona ad Arcore, fu la volta che si trovò davanti Mangano con tanto di fucile. Berlusconi ci chiese quanto volevamo per venderlo a lui. Ma noi non volevamo venderlo. Non ce l’ha mai reso. Così come le 14 stazioni della via Crucis di Bernardino Luini, nella cappella di famiglia».

All’inizio parlava di due truffe...

«Così come si sono presi il parco e la villa, si sono presi anche tutti i terreni dove poi è sorta Milano 2, terreni agricoli della famiglia Casati Stampa».

In che modo?

«Avevano frazionato i terreni in tante srl e poi li hanno resi edificabili. Quando ce ne siamo accorti, abbiamo scoperto che ogni srl era intestata a vecchini con l’Alzheimer pensionati all’ospizio della Baggina. “Lei non mi può denunciare, io conosco tutti» ci disse Berlusconi. E aggiunse: “E poi domani scioglierò tutte le srl». Ci riuscì, tranne che per poche pezzature di terreni di cui ci fece avere in tre giorni i soldi. Oltre al danno anche la beffa: la speculatrice, la palazzinara, quella che aveva trasformato i terreni da agricoli in edificabili, risultava essere Annamaria Casati Stampa. Il colmo, no? ».

Annamaria?

«Non ne vuole sapere più nulla e nesuno ha mai pensato che potesse essere risarcita. Io però continuo da allora la mia battaglia a tutti i livelli perchè credo sia giusto che si conosca la qualità delle persone che ci governano. Sotto il profilo penale, purtroppo, non è mai stato possibile fare nulla».

Qualche volta ne parlate tra di voi?
«Mia cognata ha un’altra vita, vive lontana, non è affatto legata ai soldi. In quei pochi giorni in cui Previti è stato in carcere mi disse solo: “Chissà, Magari stavolta potrò riavere il mio quadro...”».