martedì 31 luglio 2012

La Cassazione su mafia e appalti: “L’uomo di Gardini volle favorire Cosa nostra”

La Cassazione respinge la revisione del processo Panzavolta, ex ad della Calcestruzzi condannato per aver favorito i boss. La sentenza riporta in primo piano i rapporti tra Gardini e Cosa nostra

pizzo sella interna
Da uomo di fiducia di Raul Gardini e da alto dirigente della Calcestruzzi interviene personalmente su un’impresa per “indurla a ritirarsi dalla partecipazione della gara”. Sul piatto c’è l’appalto per la strada provinciale San Mauro-Castelverde-Gangi. Di più: scende a Roma per la spartizione dei lavori della tonnara di Capo Granitola (Trapani). Tra le società presenti anche la Reale, impresa riconducibile a Totò Riina attraverso “prestanomi”.
Insomma Lorenzo Panzavolta, ravennate, classe ’22, tra gli anni Ottanta e Novanta, è uno dei protagonisti nella spartizione illecita degli appalti siciliani, mettendo “il proprio ruolo al servizio degli interessi mafiosi”. Lo scrive la Corte d’appello di Palermo nel 2008, lo ribadisce oggi la seconda sezione penale della Cassazione presieduta da Antonio Esposito che respinge così la revisione del processo chiesta dallo stesso ex dirigente della Ferruzzi.
Il documento depositato il 26 luglio scorso timbra con certificazione storica un dato acquisito già in alcune sentenze: una delle più grandi industrie italiane, la Ferruzzi di Gardini, non solo ebbe rapporti con Cosa nostra, ma soprattutto ne favorì gli interessi.
Ma per una verità acquisita, le parole dell’alta Corte riaprono una partita (siciliana ma non solo) archiviata velocemente e che per molto tempo è stata descritta come la chiave di volta per interpretare gli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel mirino il dossier “mafia-appalti” depositato (per la sua prima stesura) nel 1991 dal Ros del generale Mario Mori. Informativa esplosiva, liquidata troppo in fretta e quindi svaporata tra le carte della Trattativa, soprattutto dopo che l’ufficiale dei carabinieri è stato coinvolto e indagato nell’inchiesta.
Eppure quelli (1985-1991) sono anni ruggenti. Da nord a sud. E se a Milano, prima la Duomo connection e poi Mani Pulite danno la stura agli intrecci tra mafia-impresa-politica, a Palermo Salvatore Riina traghetta la sua organizzazione “da una fase parassitaria a una fase simbiotica con la grande imprenditoria”. I giudici d’Appello fotografano così l’evoluzione voluta dal cda di Corleone.
Siamo nel 1988. Un anno prima 360 presunti mafiosi vengono condannati a complessivi 2.665 anni di carcere. E’ il primo grado del maxi-processo che mette in archivio l’epopea di una mafia ancora rudimentale. Parassitaria appunto e che entra nel mondo dell’edilizia attraverso i subappalti o il pizzo. Dalla metà degli Ottanta cambia tutto. “La mafia – scrivono i giudici di Caltanisetta – inizia a a gestire direttamente l’aggiudicazione degli appalti a imprese a lei vicine”. Non solo: “Cosa Nostra, si inserisce a tappeto nella gestione dei lavori conto terzi e nei subappalti, applicando il pizzo sul pizzo, cioè decurtando le tangenti dirette ai politici dello 0,80%”.
In quel momento la Sicilia viene invasa dai finanziamenti pubblici. C’è da spartirsi una bella torta. Ai nastri di partenza si presentano “due organizzazioni criminali”. La prima è Cosa nostra e il suo referente è Angelo Siino. La seconda è composta da un comitato d’affari che tiene dentro imprenditori e politici. In questo caso a far da tessitore e da ufficiale pagatore di tangenti è l’imprenditore Filippo Salamone e questo, scrivono i giudici d’Appello, grazie “alla sua linea diretta con il presidente della Regione Nicolosi e ai suoi legami con Calogero Mannino”. Si tratta dei due politici che, stando alla ricostruzione della corte, in quel momento contano di più. Su uno di loro, Mannino, pesa oggi la richiesta di rinvio a giudizio nell’ambito dell’indagine palermitana sulla trattativa tra Stato e mafia.
Totò Riina, però, non si accontenta. Il timore che il maxi vada a sentenza definitiva (come sarà) è alto. I dubbi sui vecchi referenti della Dc in poco tempo si trasformano in certezze. Toto u’ Curtu accelera. Primo risultato: Angelo Siino non va più bene. Si attiva Brusca. Obiettivo: trovare un nuovo referente e portare a compimento la fusione tra Cosa nostra, grande impresa e politica. Tradotto: il terzo livello. Quello che Tommaso Buscetta non volle svelare. E che Giovanni Falcone aveva in testa di raccontare proprio agganciando la partita degli appalti. L’informativa del Ros, dunque, appare decisiva. Falcone lo dice direttamente e lo fa in un incontro pubblico pochi giorni dopo il deposito della prima informativa: “Bisogna cambiare il modo di investigare”.
Se Riina fa da regista occulto, il manovratore si chiama Pino Lipari, uomo ombra del boss. Sarà sua l’idea di allargare il tavolino (definizione per indicare la spartizione dei lavori pubblici) anche alle holding del nord-Italia. Quelle che i soldi li fanno girare sul serio. Viene varato quindi un triumvirato degli appalti: c’è Salamone che prende il posto di Siino. C’è l’ingegnere Giovanni Bini della Calcestruzzi che all’epoca “faceva capo al gruppo ravennate guidato da Panzavolta”. Ma soprattutto spunta il nome di Antonino Buscemi “imprenditore mafioso della famiglia di Passo Rigano”, già in rapporti d’affari con il gruppo di Gardini. Il nome di Buscemi, anni dopo, ritornerà in un appunto di Vito Ciancimino che affianca il colletto bianco di Cosa nostra al nome di Silvio Berlusconi per aver finanziato l’affare di Milano 2.
Nei rapporti con Cosa nostra, dunque, Lorenzo Panzavolta non si sottrae e anzi con Buscemi i contatti diventano assidui. Risultato: la Calcestruzzi partecipa alla maxi-speculazione di Pizzo Sella, la magnifica montagna che sovrasta il golfo di Mondello. Uno scempio edilizio che ancora resiste e sul quale ci mise le mani la sorella di Michele Greco detto il Papa. Nel’affare entra la Calcestruzzi che, a detta dei giudici, in quell’operazione non vede una speculazione ma “un modo per favorire Cosa nostra”. Un intervento voluto dallo stesso Buscemi.
Ora alla base della richiesta di revisione del procedimento da parte di Panzavolta c’è un punto: all’epoca non era ad di Calcestruzzi ma semplice consigliere delegato. Un dato che viene definito irrilevante, visto che lo stesso Panzavolta, diventato amministratore delegato, “si era limitato a continuare l’investimento già intrapreso”.
L’uomo della Ferruzzi, condannato definitivamente a sei anni e sei mesi, sarà arrestato nel 1997. Il suo nome compare già nei verbali di Tangentopoli. Due anni prima, nel 1991, scattano le manette per Angelo Siino che inizia a collaborare. E’ la prima tranche dell’indagine mafia e appalti. Siino fa il nome di Gardini e della Ferruzzi. Due anni dopo, il 23 luglio 1993, Gardini si suicida nella sua casa milanese. Panzavolta rivelerà una telefonata ricevuta dal patron poche settimane prima. Motivo: il coinvolgimento in Mani Pulite. I giudici nisseni però non ci credono e ipotizzano che quel contatto aveva come scopo capire gli sviluppi dell’inchiesta palermitana. Ecco la lettura che nel 2000 ne diede Siino, intervistato dal Corriere della Sera. “Credo che abbia avuto paura per le pressioni sempre più insistenti del gruppo mafioso sul carro del quale era stato costretto a salire, quello dei fratelli Nino e Salvatore Buscemi, legatissimi a Totò Riina (…) Secondo me Gardini ha capito che non era più in grado di sganciarsi dall’orbita mafiosa in cui era entrato. (…) So di preciso che quando si trattò di assegnare l’appalto per la costruzione della strada San Mauro-Ganci, Nino Buscemi mi disse che il 60 per cento dei lavori doveva essere assegnato alle imprese del Gruppo Ferruzzi. E Lima mi ordinò di eseguire”.
Ma prima di Gardini, muore Salvo Lima: ucciso a Palermo nel marzo 1992. E’ il segnale: Cosa nostra cambia referenti politici. Saranno i socialisti di Bettino Craxi, ai quali lo stesso Gardini era da sempre legato. Insomma la sentenza della Cassazione su Lorenzo Panzavolta scrive l’ultima puntata del dossier su mafia e appalti. Riportando in primo piano il rapporto tra le stragi del ’92-’93 e i contatti di Cosa nostra con le grandi imprese del nord Italia.

lunedì 30 luglio 2012

Denuncia il malaffare: sospeso dal Pd, diventa l’eroe dei giovani del partito

Il 24enne Carmine Parisi, militante di Agropoli, ha subito un intervento disciplinare per aver scritto del sacco edilizio del Cilento, senza risparmiare i big democratici della Provincia di Salerno. Ma ha finito per diventare un idolo per le nuove leve, riuniti a parlare di legalità

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Un eroe per i coetanei dei Giovani Democratici, che lo hanno applaudito a lungo quando ha raccontato la sua storia e le sue battaglie contro il sacco edilizio del Cilento a una tre giorni di dibattiti sulla legalità organizzati dai Gd lombardi a Eupilio (Como). Un “rompicoglioni” non degno di far parte del partito dei ‘grandi’, secondo la commissione disciplinare del Pd che lo ha sospeso per tre mesi e fa ostruzionismo sulla richiesta di rinnovo della tessera.
Chissà se Pierluigi Bersani ne sa qualcosa. “Gli abbiamo scritto, nessuna risposta”. Carmine Parisi, 24 anni, militante Gd di Agropoli (Salerno), sorride su questa sua condizione di vittima della scoraggiante schizofrenia della politica. E tira fuori un pacco di carte che riempirebbe un faldone di Tribunale. Copie di delibere, ritagli di giornale, atti giudiziari a corredo delle iniziative con le quali Parisi ha denunciato la longa manus delle lobby edilizie sul governo di Agropoli e di intere fette del Cilento, la terra difesa fino alla morte (e purtroppo non è una metafora) da Angelo Vassallo, il sindaco Pd di Pollica-Acciaroli ucciso la sera del 5 settembre 2010.
Parisi ha illustrato, documenti alla mano, i conflitti di interesse di politici titolari di ditte edili che fanno affari con la pubblica amministrazione, nel vuoto della mancanza di strumenti urbanistici. Ma si è macchiato agli occhi del Pd, di un delitto gravissimo: ha fatto opposizione a una giunta capeggiata da un democrat, l’ex assessore provinciale di Salerno ai Lavori Pubblici Francesco Alfieri, avvocato, in ottimi rapporti con il sindaco Pd di Salerno Vincenzo De Luca nonché fratello del presidente della Banca di Credito Cooperativo del Cilento, Lucio Alfieri, che cura la Tesoreria del Comune. Un sindaco capace di essere rieletto a maggio con l’88% dei consensi al primo turno. Uno che conta, nello scacchiere del potere locale e provinciale.
Tra Davide e Golia, il Pd si è schierato con Golia senza prendere in considerazione le ragioni di Davide. Dimostrando poca attenzione alle vicende della cronaca. Perché mentre deliberava la sospensione di Parisi e dell’ex sindaco Ds di Agropoli Antonio Domini, con la motivazione di non essere acquiescenti all’amministrazione a guida Pd, sono avanzate alcune inchieste della Procura di Salerno che hanno dato ulteriori validi argomenti alle tesi dei sospesi. Due in particolare. La prima: ‘Strade fantasma’, scattata sulle denunce di Vassallo; interi lotti di strade provinciali mai costruiti, ma regolarmente pagati, mentre la politica sonnecchiava, incapace di accorgersi dell’imbroglio. La seconda, la più recente e devastante: ‘Due Torri’, l’inchiesta sul sistema Citarella, dal nome dell’imprenditore edile e presidente della Nocerina calcio capace di formare un cartello di ditte che per quasi dieci anni si sarebbe spartito gli affari della Provincia di Salerno truccando gli appalti e corrompendo tecnici e funzionari: 15 arresti, oltre 300 indagati, 302 ditte coinvolte. Tra gli indagati per turbativa d’asta c’è un assessore ed ex capogruppo del Pd di Agropoli.
E da giorni le locandine dei giornali locali (“quando non le coprono con le cartoline” dice Parisi) sparano la notizia che Citarella in carcere ha cantato e ha tirato in ballo l’ex assessore provinciale ai Lavori Pubblici. Francesco Alfieri, per l’appunto. Alfieri non è indagato e per il momento ha scelto la linea del silenzio. I papaveri del Pd salernitano lo difendono: “Non ha avuto nemmeno un avviso di garanzia” spiega il segretario provinciale Nicola Landolfi “se e quando lo avrà ne discuteremo”. Per anni Parisi e Domini queste cose le hanno raccontate tramite un loro giornalino, ‘Trasparenza e Legalità’. Il numero del 7 settembre 2011 fece rumore e guarda caso coincise più o meno coi tempi del provvedimento disciplinare. Pubblicò un reportage sui “signori del cemento che dominano la politica agropolese”. Seguiva dettagliato elenco dei consiglieri, degli assessori e dei parenti di pubblici amministratori titolari di ditte, e gli appalti aggiudicati con i relativi importi, gli incarichi di progettista, tecnico, collaudatore. Il patto del mattone. Una copia del giornale finì sulla scrivania del presidente della commissione nazionale di garanzia del Pd, Luigi Berlinguer, che per lettera promise un interessamento diretto “vista la gravità dei fatti denunciati”.
Ma poi si è fatto vivo? “No” risponde Parisi, che non smette mai di sorridere mentre spiega vicende capaci di far infuriare chiunque. E il giornale? “Abbiamo smesso di mandarlo in stampa: nessuno voleva farci più pubblicità perché temevano ritorsioni, e i direttori si sono dimessi lamentando un clima di intimidazione. Troppe querele”. Peccato. Il giornalino vantava un piccolo scoop: la pubblicazione di un’inserzione di vendita del’antico Castello di Agropoli per un milione di euro, quando la giunta Alfieri se lo è comprato, successivamente, pagandolo 3 milioni. “Fu un errore si stampa” si difesero i diretti interessati il giorno dopo.
Le carte sono in Procura, allegate a un esposto dell’ex sindaco Domini. Che argomenta così le origini del dissenso interno al Pd agropolese: “Io ero espressione dei Ds, venni sfiduciato nel 2006 attraverso una manovra orchestrata dalla Margherita di Alfieri e del presidente della Provincia dell’epoca, Angelo Villani. In questo modo mi impedirono di portare a termine l’adozione del Piano regolatore, lasciando in vigore tuttora un piano di fabbricazione del 1972. Quando non c’è un piano regolatore, si sa, aumenta la discrezionalità… Mi ricandidai da Ds contro il candidato della Margherita, Alfieri. Così in consiglio ho fatto opposizione. E l’ho proseguita anche con la nascita del Pd, perché ero espressione di una lista di minoranza, e non ho aderito al gruppo Pd. Mi hanno sospeso per questo. E perché ovviamente insieme ai Gd ho denunciato quel che ora sta emergendo con chiarezza”.
Parisi ascolta e si scusa, ma deve correre a dare una mano all’organizzazione della festa nazionale Gd, in corso sul lungomare della vicina Acciaroli. Viene Massimo D’Alema, uno dei capi storici di un Pd che invece di incoraggiare i giovani preparati e documentati come Parisi preferisce cacciarli fuori perché danno fastidio. E Parisi sorride anche su questo.

mercoledì 25 luglio 2012

Sassuolo, il sindaco se ne va dal Pdl: “Rovinati dal bunga bunga, ho il vomito”

Tre anni fa ha espugnato una roccaforte del centrosinistra ma ora ha riconsegnato la tessera del partito: "Non ho nulla contro Berlusconi ma se da Arcore fa saltare le primarie, circondato da uno stuolo di Yes man pronti a dire sì a qualunque sua proposta, allora non ci sto più"

Luca Caselli, sindaco di Sassuolo
Luca Caselli, sindaco di Sassuolo in provincia di Modena, lascia il suo partito: il Popolo della Libertà. La decisione è stata annunciata nella maniera che oggi i politici sembrano preferire, su Facebook, attraverso un post di poche righe che ha scatenato, nell’immediato, un centinaio di commenti solidali nei confronti di un amministratore che nella sua città, dagli elettori, è considerato un po’ come un campione antico. Un eroe che, tre anni fa, ha conquistato una delle fortezze del centrosinistra cambiando il colore del vessillo cittadino da rosso a azzurro. E che oggi vuole essere un “indipendente”.
“Credo che non rinnoverò la tessera del Pdl – scrive su Facebook – e che non farò altre tessere per un po’. Sinceramente mi dispiace, ma dopo aver militato per quasi 25 anni in un partito oggi ho veramente il vomito”. Le polemiche in seguito al suo annuncio, ovviamente, non si sono fatte attendere ma il primo cittadino di Sassuolo è intervenuto nuovamente per dissipare ogni dubbio. “Sono grato al Pdl per la mia elezione – ha chiarito stamani sul social network – e non intendo prendere altre tessere. Rimango il primo sindaco di Sassuolo di tutti i tempi senza tessera di partito. Non rinnego nulla ma non ho intenzione di avallare scelte politiche che non condivido”.
Una decisione consapevole, già in odore da diverso tempo, dovuta a malumori e amarezze che si sono accumulate nei confronti della gestione nazionale e locale di un partito, quello della libertà, che oggi offre un panorama “desolante” ai suoi elettori. Fatto di scontri intestini e poca chiarezza nelle scelte prese a tutti i livelli. Di “immobilismo” politico, spiega Caselli, contattato telefonicamente da ilfattoquotidiano.it.
A Modena, dove “c’è stato un congresso conflittuale con strascichi anche peggiori. Quando ho annunciato la mia decisione nessuno dall’Emilia Romagna mi ha chiamato per parlarne, ho ricevuto una sola telefonata e proveniva da Roma. Questo perché, senza un motivo apparente, mi sono ritrovato ad avere più nemici nel mio partito che all’opposizione”.
E a Roma, dove “prima si annunciano le primarie, poi si dice di candidare Berlusconi senza primarie. Non mi sembra un atto di coerenza”. Lui che per primo aveva puntato il dito contro l’ex premier perché “il bunga bunga ci ha rovinati” e “ha portato via credibilità al nostro partito” oggi non esita a togliersi un sassolino dalla scarpa, come uomo senza bandiera, indipendente. “Io non ho nulla contro Berlusconi – spiega – ma se da Arcore fa saltare le primarie, circondato da uno stuolo di Yes man pronti a dire sì a qualunque sua proposta, allora non ci sto più. Non voglio cedere a decisioni del partito che disapprovo”.
Di quello stesso partito che dalle dimissioni del suo leader naviga in acque mosse, “con troppe anime”, secondo Caselli, “senza dialogo e comunicazione”. Popolato di voci, gli ex An, i super liberal, i berlusconiani, che si fanno la guerra. “E le idee dove stanno? – chiede Caselli – io, che vengo da una delle correnti di An, perché ce ne sono diverse all’interno del Pdl, cos’ho da condividere con loro? Forse l’anti comunismo, però io non mi schiero con gli ‘anti’ ma solo con i ‘pro”.
Così come da sempre esistono gli indipendenti di sinistra, da oggi in avanti Luca Caselli, 40 anni, avvocato, governerà come un “indipendente di destra”, elevando a suo partito quella città, Sassuolo, per la quale ha sempre voluto lavorare. “Il Pdl ha smarrito la bussola, ma non lo rinnego, non faccio come Schettino che abbandona la nave, rimango un sindaco in quota Pdl ma rivendico il diritto di non fare la tessera”.
“Sono stanco – spiega – di vertici politici assolutamente fuori dal mondo reale e penso che le persone e le idee vengano prima delle tessere di partito. Per questo, per governare meglio Sassuolo in questi ultimi due anni mi spoglio della mia”.
Dopo di che, alla scadenza del mandato, quando verrà il momento di pensare a una ricandidatura, “allora farò una riflessione. Che sarà politica ma non solo, anche personale. Se ci saranno le condizioni per un secondo mandato ben volentieri – spiega il sindaco – ma dopo aver visto per una vita persone abbarbicate alle loro poltrone, beh, è dignitoso anche tornare a fare l’avvocato”.

Armi, Obama non esclude intervento Ma dopo la strage le vendite salgono. Guardate cosa succede dopo una strage e se siete con gli occhi aperti scoprirete i mandanti.

Dopo il massacro di Denver il presidente promette: "Faremo qualcosa per fermare questa violenza insensata". Il portavoce Carney: "E' possibile che in futuro ce ne occuperemo", ma l'agenda rimane vaga. Il bando alle armi d'assalto è scaduto nel 2004, al Congresso non sono previste revisioni della legislazione

WASHINGTON - La Casa Bianca non ha escluso che Barack Obama provi a mettere le mani in quello che negli Stati Uniti rimane un autentico tabù e che, sulla scia dell'emozione suscitata nell'opinione pubblica dalla strage della settimana scorsa a Denver, intervenga sul delicatissimo tema del controllo delle armi.

Durante la sua visita in Colorado domenica per confortare le famiglie delle vittime dell'assalto di James Holmes in cui hanno perso la vita 12 persone e decine sono rimaste ferite, Obama ha usato parole che possono essere interpretate come un'intenzione, seppur vaga, di intervenire: "Spero che nei prossimi giorni, settimane, mesi, possiamo riflettere su come fare qualcosa contro la violenza insensata che flagella questo paese". Una promessa sufficientemente inconsistente da non preoccupare la grande maggioranza degli americani che, secondo i sondaggi, difendono il diritto - secondo l'opinione pubblica sancito dal secondo emendamento costituzionale - alla detenzione libera di armi, e dunque da non danneggiarlo in fase di campagna elettorale. Ma comunque un modo per ribattere alle accuse di chi - come il sindaco di New York Bloomberg - in questi giorni sta battendo con forza sul tasto di un intervento deciso della politica nel controllo delle armi.

Secondo il portavoce presidenziale Jay Carney, infatti, "è certo possibile" che Obama "si occupi in futuro di tali questioni, ma al momento", ha tagliato corto, "non ho da fornire alcun aggiornamento della sua agenda".

Il Congresso di Washington non si è peraltro più occupato di norme di un certo respiro in materia di armi fin dal lontano 1994, e dieci anni più tardi è addirittura scaduto senza ulteriori provvedimenti la messa al bando di certi tipi di fucili semi-automatici, non troppo dissimili da quello utilizzato dal pluri-omicida di Denver.

E che la questione del libero accesso alle armi non sia vista dagli americani come la concausa delle ripetute stragi degli ultimi anni è dimostrato dalla reazione delle ultime ore: secondo il Denver Post, all'indomani del massacro di Aurora non solo le vendite delle armi sono aumentate del 41%, ma sono cresciute anche le richieste per il permesso di porto d'armi nascoste. "Incredibile", ha commentato Jake Meyers, commesso di un negozio di armi nella città di Parker, che ha trovato una ventina di persone in fila davanti al negozio poche ore dopo la sparatoria di aurora. "Molta gente diceva: non pensavo di aver bisogno di un'arma, adesso invece voglio averla". Il Colorado ha concesso 2.887 permessi domenica, un aumento del 41% rispetto alla settimana precedente.

Il killer di Aurora ha acquistato nel giro di otto settimane su internet 6.300 munizioni: 3.000 per il fucile semiautomatico ar-15, altri 3.000 Per le due pistole glock e 300 caricatori per il fucile a pompa. Lo studente 24enne ha comprato anche una rivista specializzata dalla quale ha imparato come sparare anche 60 colpi al minuto.
 

"La Regione Lombardia virtuosa" E l'autospot è costato 80mila euro

Il Pdl e la Lega Nord rivendicano sui giornali la 'promozione' da parte della Corte dei conti
L'iniziativa pagata col budget per la comunicazione. L'opposizione: spreco di soldi pubblici

di ANDREA MONTANARI
Pdl e Lega spendono 80mila euro di fondi pubblici per lodare la sanità lombarda nonostante il caso Daccò. Quattro pagine di pubblicità acquistate su altrettanti quotidiani per spiegare che la Corte dei conti giudica «virtuosa» la sanità di Formigoni. Per farlo, i due partiti della maggioranza hanno utilizzato una fetta dei 1,2 milioni di euro dei fondi annui destinati alla comunicazione, su un totale di oltre due milioni a disposizione degli ottanta consiglieri regionali.

Il titolo dell’articolo a pagamento è eloquente: «La Regione davanti a una Corte? Chi lo voleva è servito». Il riferimento è all’ultima relazione del massimo organo di controllo che ancora una volta ha promosso i conti della sanità del Pirellone. Roberto Formigoni difende l’iniziativa, definendola «una pagina di verità». Per spiegare agli italiani che «la Lombardia è la Regione migliore». Un’iniziativa «necessaria dopo le «sciocchezze e falsità che sono state scritte». Per il capogruppo dell’Idv Stefano Zampioni, invece, è solo «uno spreco di soldi pubblici per l’autocelebrazione di una pessima amministrazione». Il ciellino Paolo Valentini, capogruppo del Pdl, controreplica: «Un’operazione di informazione ampia e corretta. Non abbiamo mai criticato come l’opposizione spende i suoi fondi».

Più in generale, l’opposizione di centrosinistra sottolinea, al contrario,
che «la Corte dei Conti ha giudicato la correttezza formale dei bilanci e non è entrata nel merito della correttezza delle scelte». Il Pd Pizzul commenta: «Effettivamente Pdl e Lega non hanno badato a spese, ma quando uno è costretto a pagare per sostenere certe cose il dubbio che non siano poi così vere viene». L’udc Enrico Marcora osserva: «Se c’è bisogno di fare pubblicità perché i fatti non emergono da soli un motivo ci deve essere». Il capogruppo di Sel Chiara Cremonesi è categorica: «La verità non si compra. Neppure acquistando pagine dei quotidiani».
Il vicegovernatore Andrea Gibelli della Lega ammette: «Questi soldi si sarebbero potuti spendere diversamente, se i giornali avessero raccontato le cose come stanno».

Nel testo pubblicato a pagamento si sostiene, fra l’altro, che «l’attacco mediatico e lobbistico ha cercato di dipingere la Regione come luogo di corrotti e corruttori, con un sistema sanitario in preda ai lobbisti e una giunta dedita a una gestione disinvolta delle risorse pubbliche». Nel frattempo, proprio oggi la giunta regionale approverà la delibera dell’assessore leghista Luciano Bresciani soprannominata anti-Daccò. Da ora in poi tutti gli enti accreditati con contratto di valore superiore a 800mila euro dovranno fornire entro un mese il certificato antimafia, entro febbraio il bilancio certificato e la relazione annuale di un organismo di vigilanza. Pena la sospensione o la revoca dell’accreditamento. Sparisce perché «giuridicamente impraticabile» la responsabilità in solido degli altri soci sulla mancata erogazione del servizio.

Formigoni indagato per corruzione "Non temo nulla, resto al mio posto"

Finch'è questi imbroglioni e faccendieri resteranno al loro posto, l'Italia non potra' che continuare ad affondare verso il baratro. C'è bisogno di pulizia radicale. Sequestro di ogni bene, material e e immateriale a favore della comunità vittima di ingiustizie.

Svolta nell'inchiesta sulla sanità lombarda che aveva portato in carcere il faccendiere ciellino
Daccò. Il governatore dovrà rispondere dei 'benefit' da 8,5 milioni di euro transitati anche su conti
svizzeri. La replica: "Io corretto sulle delibere, non temo nulla". E poi attacca sul caso Vendola

di EMILIO RANDACIO
Dopo settimane di indiscrezioni è arrivata l'ufficialità attraverso una nota del procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati: il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, è indagato per corruzione con l'aggravante della transnazionalità nell'ambito dell'inchiesta sui presunti fondi neri costituiti attraverso la Fondazione Maugeri. Cade invece l'accusa, inizialmente contestata, di finanziamento illecito per mezzo milione di euro ricevuto per le elezioni regionali del 2010. Al presidente lombardo è stato anche notificato un invito a comparire davanti ai pm milanesi sabato 28 luglio: lui stesso, però, ha già anticipato che chiederà il rinvio a un'altra data. Formigoni sarebbe stato corrotto con utilità per un valore di circa 8,5 milioni di euro in relazione a 15 delibere regionali con cui sono stati stanziati per la Fondazione Maugeri rimborsi di circa 200 milioni in dieci anni.

L'autodifesa del governatore. "La Regione non ha alcuna responsabilità sul controllo dei bilanci delle fondazioni San Raffaele e Maugeri", si è difeso Formigoni durante un'audizione al Senato. "Bisogna tener presente che questi sono Irccs, enti a rilevanza nazionale. La vigilanza sui loro bilanci spetta al ministero della Salute". E il Pd lombardo chiede "un'assunzione di responsabilità
che fino a qui non c'è stata: il voto anticipato continua a essere l'unica strada percorribile per rinnovare una situazione sempre più ingestibile". Lo affermano il segretario lombardo del Pd, Maurizio Martina, e il capogruppo in Regione, Luca Gaffuri. "Questa notizia - scrivono in una nota - conferma e aggrava la preoccupante situazione che coinvolge direttamente il vertice della Regione". La Lega Nord, invece, continua a sostenere Formigoni. Lo ha assicurato Andrea Gibelli, vicepresidente della Regione Lombardia in quota carroccio: "La posizione della Lega Nord non cambia. E non si farà mai intimorire dalla verosimiglianza, ma si riferirà sempre e soltanto alla verità".

"Giornalisti gazzettieri dei magistrati". Nel pomeriggio Formigoni ha incontrato i giornalisti per una conferenza stampa. "Ho letto le carte. E a una seconda lettura mi sono detto: tutto qua?", ha esordito. "Non ho nulla da temere dopo la lettura di questi atti". Il governatore ha poi ribadito quanto aveva espresso in mattinata via Facebook: "Esprimo le mie più vive congratulazioni alla maggioranza di voi per l'equilibrio con cui è stata trattata la notizia relativa al rinvio al giudizio del presidente della Puglia, Nichi Vendola" (in realtà si tratta di una richiesta di rinvio a giudizio). "Nessun quotidiano ha riportato la notizia oggi in prima pagina". E poi: "Qual è l'atto corruttivo? Dov'è la corruzione? Io non l'ho trovata". Quindi un altro attacco ai giornalisti: "Alcuni di voi sono stati degni gazzettieri dei magistrati". A proposito dei 'benefit' che gli sarebbero stati elargiti da Daccò: "Non è reato, eventualmente, essere stato ospite a una cena insieme con altre cinquanta persone o per qualche weekend". Ipotesi dimissioni: Formigoni ha replicato che "io rimango al mio posto, perché so che i miei comportamenti sono sempre stati rettilinei. Se mi rinviano a giudizio, andrà a finire che vincerò 12-0. Mi hanno già mandato a processo 11 volte e sono stato sempre assolto. E se non sarò rinviato a giudizio, questo rimarrà un altro inutile avviso di garanzia a Formigoni".

Indagato dal 14 giugno. Il nome di Formigoni era stato iscritto nel registro degli indagati il 14 giugno scorso, in concorso con altre persone per fatti commessi a Milano e all'estero dal 2001 al novembre del 2011: fra gli altri indagati ci sono il faccendiere Pierangelo Daccò (legato a Comunione e liberazione), Umberto Maugeri (patron della fondazione omonima), Costantino Passerino (ex direttore amministrativo della Maugeri) e l'ex assessore regionale dc Antonio Simone, oggi imprenditore immobiliare e consulente nel settore sanitario. L'aggravante della transnazionalità è dovuta al fatto che i magistrati milanesi ritengono che ci siano stati una serie di passaggi in conti correnti in Svizzera. L'invito a comparire, con contestuale informazione di garanzia, è stato notificato al legale di Formigoni, l'avvocato Salvatore Stivala.

Settanta milioni di euro. L'inchiesta sulla Fondazione Maugeri ruota intorno a 70 milioni di euro che si presume siano stati distratti dal polo privato, attivo nel settore della sanità, in favore del consulente e mediatore Daccò. Questi soldi sarebbero stati usati per costituire fondi neri, dai quali l'uomo d'affari avrebbe attinto per pagare alcuni benefit concessi a Formigoni: vacanze, cene e soggiorni. In cambio, ipotizzano gli inquirenti, la Regione Lombardia avrebbe approvatp delibere in favore della Fondazione Maugeri, facendo aumentare i rimborsi a suo favore per le funzioni 'non tariffabili'. Nell'ambito dell'inchiesta - nata da quella sul crac dell'ospedale San Raffaele e coordinata dai pm Laura Pedio, Antonio Pastore e Gaetano Ruta, coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Greco  sono state già arrestate sei persone, fra le quali Daccò e Simone.

I 'benefit' al governatore. Gli investigatori hanno quantificato in 8,5 milioni di euro le "utilità" elargite a Formigoni: si va dai 3,7 milioni per imbarcazioni di lusso messe a disposizione tra il 2007 e il 2011 agli 800mila euro per vacanze e aerei fra il 2006 e il 2011; dai 70mila euro per il meeting di Comunione e liberazione a Rimini ai 500mila euro per cene e incontri pubblici. A ciò si aggiungono i 4 milioni di euro di 'sconto' in relazione alla compravendita della villa in Sardegna acquistata da Alberto Perego, il coinquilino di Formigoni (vivono nello stesso appartamento con altri Memores Domini), per 3 milioni di euro; il valore ipotizzato sarebbe stato di 7 milioni.

Dell'Utri, no a deposizione Berlusconi "Non è indispensabile né decisiva"

L'ex premier era stato citato dal procuratore generale come "persona offesa" nel processo d'appello per concorso esterno a carico del senatore del Pdl. Ma la corte non ha ritenuto utile la testimonianza. Il Pg: "Rischio prescrizione"

PALERMO - Le dichiarazioni di Silvio Berlusconi non sono ''ne' indispensabili ne' decisive'' ai fini della sentenza nei confronti del senatore del Pdl Marcello Dell'Utri, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa dopo il rinvio della Cassazione che aveva annullato la precedente condanna a 7 anni, e per questo la Corte di Appello di Palermo, presieduta da Raimondo Lo Forti, ha rigettato nell'udienza di questa mattina la richiesta del procuratore generale Luii Patronaggio di convocare l'ex premier come testimone.

I giudici hanno respinto quasi in blocco le richieste dell'accusa, e hanno ammesso come teste soltanto il bancario Giovanni Scilabra, il quale ha riferito nel 1986 Marcello Dell'Utri e l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, andarono a trovarlo nel suo ufficio per discutere di prestiti. Scilabra sara' sentito nella prossima udienza, fissata per il tre ottobre.

L'episodio riferito da Scilabra e' del 1986. Dell'Utri, che oggi non era presente in aula, lo ha sempre negato e ha sporto querela contro il bancario. Il processo e' attualmente pendente davanti al Tribunale civile di Roma. La Corte, nel rigettare le richieste del Pg, ha spiegato che il processo, come disposto dalla Cassazione nel rinvio degli atti dopo l'annullamento della condanna di Dell'Utri, deve soffermarsi soltanto sul periodo compreso tra il il 1978 e il 1982.

Il procuratore Patronaggio aveva ricordato che Berlusconi era stato citato gia' nel primo processo ma essendo all'epoca indagato di reato connesso aveva potuto avvalersi della facolta' di non rispondere, e aveva argomentato che se nuovamente convocato, come testimone, non avrebbe potuto sottrarsi alle domande. Per i giudici, pero', dall'ex primo ministro non potrebbero in ogni caso venire elementi di rilievo e pertanto e' inutile citarlo.

Tra le richieste respinte dalla Corte, anche quella di convocare il pentito Giovanni Brusca perche' parlasse della trattativa Stato-mafia. I giudici, che hanno sottolineato come su questo punto le dichiarazioni del collaboratore siano apparse contraddittorie, hanno disposto di acquisire i verbali di Brusca limitatamente alle parti relative alle estorsioni ai danni di Berlusconi. No anche alla citazione dei boss di Brancaccio, Giuseppe e Filippo Graviano, e del pentito Stefano Lo Verso.

''L'ordinanza della Corte si e' molto attenuta ai criteri della Cassazione e ha delimitato moltissimo l'oggetto della prova. Incombe il pericolo della prescrizione specie se risultera' l'interruzione della condotta ascritta a Dell'Utri'' ha detto il procuratore generale Patronaggio, commentando la decisione della Corte di appello. ''L'ordinanza della Corte d'Appello e' equilibrata e mirata a chiarire i problemi sollevati dalla Corte di Cassazione'', dice l'avvocato Giuseppe Di Peri, difensore del senatore Dell'Utri.

Trattativa, la Procura chiede il rinvio a giudizio "Processo per Riina, Provenzano e Mancino"

Il pool coordinato dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia ha firmato questa mattina la richiesta di un processo per i dodici imputati dell'inchiesta sulla trattativa mafia-stato. Il provvedimento è stato vistato anche dal procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, che nelle scorse settimane si era astenuto dall'avviso di chiusura dell'indagine

di SALVO PALAZZOLO
Secondo la ricostruzione dei pm di Palermo, fu l'ex ministro Dc Calogero Mannino ad avviare la trattativa con i vertici di Cosa nostra, all'inizio del '92, perché temeva di essere ucciso. Poi, sarebbero stati i carabinieri del Ros a proseguire il dialogo segreto fra Stato e mafia, tramite l'ex sindaco Vito Ciancimino. Dopo il '93, invece, i boss avrebbero avuto un altro referente nei palazzi delle istituzioni: l'attuale senatore Marcello Dell'Utri. Così la Procura di Palermo riscrive una delle pagine più buie della storia recente del Paese: dopo quattro anni di indagini, un atto d'accusa di nove pagine, la sintesi di 120 faldoni, vengono chiamate in causa dodici persone, per i magistrati sono loro i protagonisti di un patto scellerato che Paolo Borsellino avrebbe scoperto nella sua fase iniziale.

Quella trattativa ebbe il suo culmine nel 1994, ne sono convinti il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene: fu allora che i capimafia Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca "prospettarono al capo del governo in carica Silvio Berlusconi,
per il tramite di Vittorio Mangano e Dell'Utri, una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura". Così è scritto nella richiesta di rinvio a giudizio.

Gli indagati
In cima alla lista della richiesta di rinvio a giudizio ci sono i nomi dei capimafia: Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca e Antonino Cinà. Seguono i nomi di rappresentanti delle istituzioni e di politici: Antonio Subranni, Mario e Giuseppe Donno, all'epoca l'anima del Ros dei carabinieri; Mannino era ministro; Dell'Utri, il braccio destro di Berlusconi. "Hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato", recita l'atto d'accusa della Procura fondato sulle indagini della Dia di Palermo, diretta dal colonnello Giuseppe D'Agata. "Hanno agito in concorso con l'allora capo della polizia Parisi e il vice direttore del Dap Di Maggio, deceduti": loro avrebbero ammorbidito la linea dello Stato contro la mafia, cedendo su centinaia di 41 bis, il carcere duro varato dopo le stragi.

L'atto d'accusa della Procura prosegue con il nome dell'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: "Deponendo al processo Mori - scrivono i pm - anche al fine di assicurare ad altri esponenti delle istituzioni l'impunità ha affermato il falso e comunque taciuto in tutto o in parte ciò che sapeva". I magistrati ritengono che anche l'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso e l'allora capo del Dap Adalberto Capriotti abbiano mentito: sono indagati per false dichiarazioni ai pm, ma per questo tipo di reato la loro posizione è sospesa, così ordina il codice penale, in attesa della definizione del processo principale.

C'è pure Massimo Ciancimino nella richiesta di rinvio a giudizio: è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, ma anche di calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Si profila un processo senza precedenti: insieme, i vertici della mafia e dello Stato.

lunedì 23 luglio 2012

raggiunti oggi 50000 (CINQUANTAMILA) visite. Il blogspot è stato annunciato il 26 marzo 2011




Ieri 21 Luglio dopo soli 16 mesi ha raggiunto 50 mila visite.
Il pubblico che ha visitato il blog in ordine di visite sono stati i seguenti:
Italia: ..................................................................................38.311
Stati Uniti:.............................................................................5.501
Germania:.............................................................................3.367
Federazione Russa:..................................................................785
Francia:....................................................................................523
Svizzera:.................................................................................. 288
Regno Unito:............................................................................257
Lettonia:...................................................................................210
Paesi Bassi:..............................................................................182
Singapore:............................................................................... 179

Nell'ultimo mese di giugno sono state superate le 7.000 visite.
Grafico dei Paesi con il maggior numero di persone che visualizzano i blog


   Italia
5595
   Stati Uniti
 662
   Germania
150
   Federazione Russa                                                              
92
   Francia
90
   Regno Unito
41
   Svizzera
37
   Ucraina
34
   Spagna
17
   Cina
16


 

 


L'annunciazione di Leonardo da Vinci
Il blogspot UNFILOPERLITALIA è stato annunciato il 26 marzo 2011 con il primo Post:  
Il logo UNFILOPERLITALIA
http://unfiloperlitalia.blogspot.it/2011/04/e-partito-da-marsala-il-giro-ditalia.html

Questo post darà il là al mio cammino: 

Risvegliamo le coscenze per unire gli italiani in occasione dei 150 anni dell'Unità d'Italia: http://unfiloperlitalia.blogspot.it/2011/03/risvegliamo-le-coscenze-per-unire-gli.html 

Come una nota musicale, il LA darà il via ai miei primi passi verso l'Italia

 il Forrest Gump e il pellegrino della Patria, per urlare la propria voce e il proprio urlo di angoscia verso un paese condannato alla deriva, alla sua fine. Un baratro è la prospettiva che rimane all'orizzonte di oltre 60 milioni di italiani. 

  L'urlo di Munch con lo spettro di un'apocalisse che attende  la   fine di una Nazione.  

 

Dalla carne alla mozzarella Camorra Food Spa serve a tavola


Cibi avariati, frutta dai terreni pieni di rifiuti tossici, controllo dei grandi mercati alimentari: così il menù dei boss arriva sulle tavole

di ROBERTO SAVIANOMOZZARELLE, zucchero, burro, caffè, pane, latte, carne, acqua minerale, biscotti, banane, pesce. Difficile ammettere che quando andiamo a fare la spesa rischiamo di finanziare le organizzazioni criminali. Eppure è così. Il paniere della camorra, di Cosa Nostra, della 'ndrangheta tocca la giornata tipo di un comune cittadino. Ogni gesto, dal primo che compiamo al mattino sino alla cena, può far arricchire i clan a nostra insaputa. Per comprendere come ogni passaggio possa esser dominato dai clan, basta descrivere una giornata.

Si inizia dal bar. Il caffè in molti territori è monopolio dei boss. A volte ne gestiscono la produzione, altre solo la distribuzione. Esempio: il clan Mallardo di Giugliano imponeva ai bar di comprare il caffè Seddio prodotto da una ditta intestata ai D'Alterio, nipoti del boss Feliciano Mallardo. L'operazione della Guardia di finanza "Caffè
macchiato" del 2011 ha mostrato che l'imposizione del caffè Seddio era di tipo estorsivo, ma ha anche svelato l'esistenza di un vero e proprio accordo tra il clan Mallardo e i vertici dei Casalesi, che consentivano l'espansione degli interessi dei giuglianesi anche in aree tradizionalmente sotto il loro controllo, previo pagamento di una tangente che veniva versata al "gruppo Setola". Consumare una tazzina di caffè Seddio era molto più di una pausa dal lavoro, era molto più di un modo per trovare energie al mattino: era bere il frutto di un patto, di un'alleanza. Il clan Vollaro di Portici imponeva la marca di caffè "È cafè", prodotto da un cognato dei Vollaro, subconcessionario di El Brasil di Quarto. Spesso le organizzazioni riescono a trattare sui chicchi direttamente in Sudamerica, ne gestiscono la torrefazione e poi la distribuzione. Imponendo la marca di caffè ai bar, accade che iniziano in qualche modo a partecipare alla loro gestione: entrano nelle attività e appena sono in crisi ne rilevano la proprietà.

Sembra un'economia minore, ma garantisce un flusso continuo di denaro ed è un modo per conquistare nuovi territori, per stringere alleanze, per creare coperture. Giuseppe Setola costrinse gran parte dei bar e delle caffetterie dell'agro aversano e del litorale domizio ad acquistare una miscela di caffè di pessima qualità, il Caffè nobis, a un normale prezzo di mercato. Con i suoi fedelissimi aveva costituito un vero e proprio marchio, aperto partite Iva e creato società, per dare all'affare una parvenza di legalità. E poi c'è il Caffè Floriò, che fa capo a Cosa Nostra: imposto a decine di locali di Palermo.

Anche lo zucchero che mettiamo nella tazzina è un business enorme e può essere sospetto. Dante Passarelli, considerato l'imprenditore di riferimento della famiglia Schiavone, era riuscito a divenire il re dello zucchero con la sua società Ipam. Lo zucchero Ipam era ovunque. Eridania, il colosso italiano, denunciò un'espansione innaturale dei prodotti dello zuccherificio di Passarelli. La società fu sequestrata tra il 2001 e il 2002 dalla Dda, da allora il marchio è diventato Kerò. Dante Passarelli morì misteriosamente cadendo da un terrazzo
nel 2004 poco prima della sentenza Spartacus. Morendo, i beni congelati tornarono alla famiglia e quindi, presumibilmente, nella disponibilità del clan dei casalesi, di cui Passarelli era stato prestanome.
A Napoli, il caffè viene sempre servito con un bicchiere d'acqua minerale. Ma anche l'acqua può essere affare dei clan. Il boss

dei Polverino di Marano, Peppe o' Barone, aveva una rete distributiva gigantesca che comprendeva acqua minerale, uova, polli, bevande e, ovviamente, anche caffè. Storia antica questa dell'acqua minerale: la camorra negli anni 80 aveva iniziato a esportare l'acqua campana negli Stati Uniti. Poi d'improvviso le bottiglie smisero di partire da Napoli. Eppure il commercio d'acqua in America continuava. Cosa accadde lo ha raccontato il film di Giuseppe Tornatore "Il camorrista" (tratto dall'omonimo libro di Giuseppe Marrazzo pubblicato nel 1984 da Pironti): il boss o' Malacarne decise di spedire soltanto le etichette, che venivano incollate su bottiglie riempite con acqua di rubinetto di New York. Bastava il marchio, perché, come diceva o' Malacarne: "Che ne capiscono gli americani, tanto quelli bevono la Coca- Cola".

I clan, anche quelli che investono nei mercati finanziari di tutto il mondo, hanno i piedi ben radicati nei Paesi, nelle province, nella terra, nelle cose. E partono da bisogni primari. Dal cibo. Dal pane. Ma poiché sul pane il margine di guadagno è spesso bassissimo, le strategie cambiano. O il racket impone un vero e proprio monopolio nella vendita della farina ai panettieri della zona che, terrorizzati dalle continue minacce, comprano a un prezzo altissimo e completamente fuori mercato una farina scadente e di bassissima qualità (lo racconta l'operazione Doppio zero a Ercolano). Oppure i clan si trasformano in panificatori: hanno spesso forni clandestini che utilizzano per produrre tonnellate di pane da vendere la domenica mattina in strada. Pane clandestino ed esentasse. I forni venivano alimentati evitando di comprare legna costosa e bruciando vecchie bare trovate nei cimiteri, infissi marci, tronchi di alberi morti trattati con agenti chimici: tutto ciò che avrebbe dovuto essere smaltito perché rifiuto speciale, finiva nei forni per cuocere il pane.

E poi il latte. Nulla di male assoceremmo mai al latte: bianco, candido, ricordo d'infanzia. E invece il suo è uno dei mercati più ambiti dalle organizzazioni criminali che presero a proteggere anche quello, anche il latte Parmalat. Il clan dei casalesi e i Moccia avevano praticamente eliminato nelle province di Napoli e Caserta ogni residua concorrenza. Quando qualche ditta riusciva ad abbassare il prezzo del proprio latte, il racket bruciava i camion o imponeva un pizzo elevatissimo costringendo quindi ad aumentare il prezzo per non insidiare il mercato del latte Parmalat. Cirio e Parmalat agivano in regime di monopolio grazie a un obolo che ogni mese versavano ai clan. Era tale la gravità della situazione che a fine anni 90 l'Autorità garante per la concorrenza si trovò costretta a imporre alla Eurolat (acquisita da Parmalat nel 1999) la cessione di alcuni marchi per sanare la situazione.

Pane, latte e burro: un tempo la prima colazione si faceva così. Ma anche il burro per anni è stato al centro degli affari dei clan. Nel 1999, la Dda di Napoli scoprì una vera e propria holding mafiosa che coinvolgeva i maggiori produttori di burro a uso industriale dell'Italia meridionale insieme ad aziende di burro piemontesi e grandi aziende dolciarie francesi e belghe compiacenti. Protagonista la Italburro controllata dal clan Zagaria, che produceva un burro venefico, utilizzando sostanze tossiche, oli per la cosmesi, sintesi di idrocarburi e grassi animali.

Non poteva sfuggire il mercato della carne, da sempre settore con una forte influenza mafiosa, come già aveva denunciato Giancarlo Siani nel 1985 parlando del clan Gionta nell'articolo che probabilmente lo condannò a morte. Forse l'operazione più importante sul traffico illegale del mercato della carne è stata Meat Guarantor, un'inchiesta conclusasi nel 2002 e condotta dai carabinieri del Nas che ha descritto il coinvolgimento di rappresentanti di tutti i settori della filiera della carne: allevatori, macellatori, proprietari delle macellerie, amministratori pubblici conniventi. L'organizzazione sgominata aveva base a Napoli e in provincia di Salerno, ma si estendeva al nord Italia e in Germania; utilizzava veterinari che certificavano la buona salute di animali che invece erano stati sequestrati perché malati. Ad altri animali, privi di documentazione sanitaria e spesso malati, somministravano medicine perché rimanessero vivi e potessero essere macellati. Recentemente il collaboratore di giustizia Domenico Verde ha dichiarato ai pm: "Si vende esclusivamente la carne delle aziende di Giuseppe Polverino", dell'omonimo clan che già commercializzava acqua. Polverino, camorrista e imprenditore, arrestato pochi mesi fa in Spagna, aveva utilizzato lo spaccio di cocaina e hashish come apripista per le sue imprese nel settore alimentare. Aveva i piedi saldi a terra, saldi nella sua terra, e utilizzava l'attività criminale per sostenere l'impero dei generi alimentari.

E poi c'è la frutta: la camorra fa da tramite dall'Africa al mercato ortofrutticolo di Fondi e nei porti: senza pagare i clan, non si può scaricare la merce che rimane a marcire nei container. L'operazione della Dia Sud Pontino svelò un patto tra Cosa nostra e camorra per controllare ortofrutta e trasporti. Fondi, in provincia di Latina, era lo snodo centrale per controllare il mercato della frutta e della verdura al centro-sud e anche in alcune zone del nord. Il clan dei Casalesi, i Mallardo, i Licciardi, insieme alle famiglie mafiose siciliane dei Santapaola-Ercolano di Catania, imponevano il monopolio dei trasporti facendo fluttuare i prezzi. Non solo Fondi, anche la frutta e la verdura nel nord Italia hanno avuto un controllo mafioso. L'ortomercato alla periferia sud-est di Milano è stata una delle piazze in cui la 'ndrangheta ha compiuto molti dei suoi affari, controllando ampi settori della filiera agroalimentare. Non esisteva mela, pera o melanzana trasportata in tutta Italia che non portasse nel suo prezzo la traccia dell'affare mafioso.

Allearsi con le mafie spesso significa distribuire i propri prodotti a prezzi migliori, a condizioni vantaggiose. Non è raro che importanti marchi finiscano per essere rappresentati da agenti dei clan. Agli inizi degli anni Duemila, un affiliato del clan Nuvoletta, Giuseppe Gala detto Showman, aveva acquistato importanza nel clan proprio perché nel business alimentare sapeva muoversi. Era diventato agente della Bauli. I Nuvoletta tra l'altro imponevano il raddoppio del prezzo del panettone Bauli a Natale come "tassa" per sostenere le famiglie dei detenuti in carcere.

Infine c'è la mozzarella, prodotto campano d'eccellenza, nel mirino delle organizzazioni da sempre. I casalesi importavano latte proveniente dall'est Europa, dove avevano allevamenti di bufale, mozzarelle romene che venivano vendute come mozzarelle casertane. Poi hanno iniziato a importare a basso costo le bufale dalla Romania, per infettarle con sangue marcio di brucellosi e guadagnare dall'abbattimento. Inquinare con affari mafiosi la produzione di mozzarella significa compromettere una delle storie culturali ed economiche più preziose della Campania. E i clan lo fanno da decenni. Nella vicenda che ha portato all'arresto di Giuseppe Mandara e al sequestro dell'azienda è emerso che grazie al rapporto con i La Torre, l'imprenditore aveva tratto vantaggio dalla rete criminale messa a disposizione dal clan e dalla sua condotta mafiosa. Non solo ci sarebbe un rapporto economico, ma anche un appoggio strategico. Mandara, secondo le accuse, utilizza una prassi tipica della logica mafiosa: per abbassare i costi utilizza prodotti di scarsa qualità o mischia tipi di latte diverso. Nelle mozzarelle di bufala prodotte da Mandara era infatti presente anche del latte vaccino in percentuali considerevoli. Le mozzarelle di bufala venivano quindi messe in commercio con l'indicazione Dop anche se il procedimento non l'avrebbe affatto consentito.

Ultimo viene il dolce. I clan sono riusciti a infettare, secondo la Dda di Napoli, persino uno dei marchi di pasticceria industriale più famosi d'Europa: la Lazzaroni e i suoi amaretti. Secondo le accuse dell'antimafia, capitali criminali avrebbero risollevato aziende del Nord in crisi sanando i conti e facendo chiudere i bilanci in attivo. Un miracolo in tempo di crisi. È un salto di qualità: la trasformazione del crimine in un'imprenditoria ricca, forte, competitiva. Ma dalle fondamenta marce.

Ciò che dovrebbe far riflettere è che le mafie hanno solo anticipato quei meccanismi che spesso sono diventati prassi nel settore alimentare italiano, europeo e non solo. Essere competitivi, per molte imprese, significa abbassare a tal punto la qualità, da rendere talvolta ciò che si produce al limite dei criteri consentiti per la commercializzazione. Come per ogni settore, prima che arrivino forze dell'ordine e magistratura, i consorzi di categoria sono fondamentali. È fondamentale che chi fa prodotti di qualità pensi di unirsi e tutelare i consumatori, se stessi e il proprio mercato. L'alternativa è che il massimo ribasso non farà vincere la qualità, la bravura, i talenti, ma solo i prodotti più corrotti e le imprese più furbe. Triste destino per l'eccellenza italiana.

venerdì 20 luglio 2012

Sanità, l’amico coinquilino di Formigoni e i milioni della Regione all’Ingm

Il triangolo "celeste" che coinvolge l'ad dell'istituto nazionale di genetica molecolare Perego, il direttore generale dell'assessorato alla salute Lucchina e i soldi che, anche grazie a quest'amicizia, sono finiti alla struttura guidata dall'amico del presidente

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Metti l’amico del governatore lombardo, nonché suo convivente, che dalla poltrona di amministratore delegato dell’Istituto nazionale di genetica molecolare (Ingm, costituito dal ministero della Salute e dalla Regione) ha in progetto di ottenere un finanziamento pubblico. Aggiungi il direttore generale della sanità in Regione che in tasca si tiene le chiavi della cassaforte e che, visto il ruolo ricoperto, ha come suo diretto interlocutore il presidente di palazzo Lombardia. Concludi con un bel tesoretto (1 milione di euro) che finisce nelle casse dello stesso Istituto. Eccoli i protagonisti di una storia raccontata nell’ultima informativa messa agli atti dell’inchiesta sui fondi neri (80 milioni) usciti dalla Fondazione Maugeri e finiti in diversi conti esteri. C’è Alberto Perego, Memor Domini di Cl, commercialista, amico di una vita di Roberto Formigoni e dirigente della Ingm. C’è lo stesso governatore e il suo braccio destro, il direttore generale della sanità, Carlo Lucchina (plurindagato per un giro di appalti in diversi ospedali lombardi). E poi ci sono le riflessioni degli investigatori.
SECONDO LORO, infatti, “Perego ha sfruttato i suoi rapporti personali con il presidente Formigoni per indurlo a intervenire su Lucchina e facilitare così l’erogazione di un finanziamento alla Ingm”. Questo, “per quanto emerge dalle attività tecniche”. Il resto è, in conclusione, che pur non rilevando condotte illecite, appare devastante per l’immagine pubblica della Regione, perché svela un sistema di potere giocato sui rapporti personali. Si legge così della “disinvoltura con cui vengono gestiti i fondi pubblici di Regione Lombardia nel campo sanitario, dove chi amministra e controlla è in stretti rapporti di amicizia (vivendo abitualmente anche fianco a fianco), alla faccia del conflitto di interessi, con chi tali fondi li deve utilizzare”. I brogliacci delle intercettazioni scandiscono la cronologia della vicenda. E così, sentendo il telefono di Perego, gli investigatori agganciano la storia di un finanziamento da 3 milioni di euro che la Ingm deve incassare dal ministero della Salute e dalla Regione. Tutto si svolge tra novembre 2011 e aprile 2012. L’ascolto delle telefonate mette gli investigatori davanti a una prima evidenza: da un lato “la corsia preferenziale” che Perego “intrattiene con Lucchina (…), tanto che in una occasione lo invita apertamente a stare dietro alla pratica”. Dall’altro, “Formigoni coinvolto in conseguenza di un intoppo nell’iter di concessione del finanziamento”. Alla fine, l’affare andrà in porto, grazie a questa rete di relazioni nella quale entrano, in modo indiretto, il ministro della Salute Renato Balduzzi e Alessandra Massei, la dirigente della Regione indagata per riciclaggio nell’inchiesta Maugeri.
NEL NOVEMBRE 2011, Perego è al telefono con il responsabile scientifico di Ingm. Il Memor Domini commenta il finanziamento: “È un bel colpo”. Ma riflette che “senza Lucchina sarebbero nei guai”. Quindi confessa come “dalla delibera della Regione” stiano “ottenendo ulteriori vantaggi”. Nel gennaio 2012 qualcosa inizia a non funzionare. Da un lato i fondi ancora non arrivano, dall’altro sono stati ridotti a 1,5 milioni. Il 7 febbraio, Perego si lamenta con Formigoni il quale “risponde che incontrerà il ministro”. I due si risentono l’8 febbraio. Di nuovo il presidente rassicura sul fatto che “la Regione farà più di quello che è possibile e poi vedremo con il ministero”. E ancora: “Ti ho già detto che prendo in considerazione la cosa, per cui non preoccuparti”. La svolta arriva il giorno di San Valentino. I finanziamenti stanno per partire. Si attende solo la stesura della delibera.
QUEL GIORNO Lucchina, al telefono con Perego, utilizza parole esplicite: “Dice”, annotano gli investigatori, “che lui deve ringraziare il suo presidente (…) il quale avrebbe fatto un po’ di casino quando si è recato a Roma”. Il 21 febbraio la giunta regionale delibera un finanziamento di 1 milione di euro a favore dell’Ingm. Conclusa l’operazione, ecco l’ultima appendice della storia sulla destinazione del denaro. Secondo l’annotazione della polizia giudiziaria, infatti, i fondi “sembrerebbero essere investiti in titoli”. La Ingm “è intestataria di rapporti bancari con diversi istituti di credito”: denaro pubblico investito in operazioni private. Eccolo, dunque, il sistema della sanità lombarda. Da sempre fiore all’occhiello di Formigoni.
Da Il Fatto Quotidiano del 20 luglio 2012

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